Ha funzionato solo la scelta dal basso, quella della gente comune che evidentemente è più avanzata dei politici. La parità di M5S con le parlamentari scelte in Internet è per ora l’unica certezza tangibile
E’ come un film già visto, o un’imitazione di un originale vissuto. La lotta delle donne per democrazia paritaria. Un argomento complesso. Il rischio a parlarne è che si voglia ridurre tutto ad una corsa per le poltrone. Non è così.
Giorni fa ho sentito al telefono Pina Nuzzo, già delegata nazionale Udi, animatrice di eventi di grande coinvolgimento tra cui la “Staffetta delle Donne contro la violenza” e “Immagini Amiche”. Mi ha chiesto dove reperire il filmato delle 120mila firme consegnate in Senato nel 2007 per la legge di iniziativa popolare 50E50. Le ho mandato i link, e insieme quello del brano musicale “Donne in parola” composto con la mia chitarra in via dell’arco di Parma, sede Udi a Roma. Ma il testo non è tutta farina del mio sacco, erano le parole delle donne dette in quelle riunioni piene di entusiasmo e speranza. Le ho solo messe in fila cercando assonanze e rime tra esse.
Come si fa dire che tutto quello che abbiamo fatto in 15 anni di impegno è stata solo una corsa alle poltrone? Non è vero, anche perché di tantissime donne con talento e competenza che ho conosciuto io non ne trovo “quasi” nessuna nei banchi di governo e parlamento.
Non funziona. Non ha funzionato nulla. I Sit-in, le petizioni ai presidenti della Repubblica, le riunioni alla Casa Internazionale Delle Donne, le campagne “Pari e di più” fatte con la Commissione pari opportunità (quando c’era la Cnpo). Mi ricordo di Tina Lagostena che fino agli ultimi giorni della sua vita era promotrice di iniziative con manifestazioni, convegni, dichiarazioni alla stampa. Ogni tanto mi diceva “Vado dalle Donne dell’Udi, c’è un’iniziativa e mi hanno chiesto aiuto”. Spesso l’accompagnavo e trovavo in quel contesto un linguaggio diverso ma riconoscibile perché profondamente assimilato altrove.
L’ orgoglio di essere riuscite a consegnare le firme in Senato
Tante cose abbiamo fatto. Autofinanziandoci, senza mai alcun contributo istituzionale. Nel 2007 Milena Carone, giurista, scrisse la legge di iniziativa popolare per la democrazia paritaria e da 50mila che ne servivano, consegnammo 120mila firme in Senato in una giornata memorabile: le donne con le ceste, giunte da ogni località, i pacchi di firme e gli ombrelli colorati perché pioveva, era il 27 novembre 2007 . Il fermento era misurabile nell’aria in quel periodo. A distanza di pochi giorni Beppe Grillo in risciò consegnava a Palazzo Madama 350mila firme dei grillini per il Palamento Pulito. Era il 14 dicembre 2007.
Queste son vicende dolci amare che partono da lontano. Ho scritto un libro di circa quattrocento pagine cercando di spiegare e di rendere percepibile il muro di gomma; ma sono innumerevoli le opzioni, i fattori che determinano lo stallo nella progressione femminile. Leggo della Prestigiacomo che oggi dichiara alla stampa contro l’odierna legge elettorale. Già piangeva nel 2004 per la bocciatura delle quote rosa.
Mi ricordo di Barbara Pollastrini in piazza Montecitorio che ci diceva “Dovete parlare con i vostri segretari di partito. Io con Fassino, voi con i vostri. Le selezioni si fanno dentro le stanze dei bottoni, ed è lì che dobbiamo influire sulle scelte!”. “Noi no”, rispondevamo, “Nella presidenza non c’è possibilità!”.
“Cose talebane?”
“ Sì.”
Le dichiarazioni alla stampa si sono ripetute negli anni. Erano più che mai convinte nel 2004; ma andando ancora più indietro nel tempo si rammenta che un giorno da un paesino del Molise, un certo Giovanni Maio, impugnò davanti al T.A.R le operazioni per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale perché tra i trentasei candidati era presente solo una sola donna, in violazione dell’art. 5, secondo comma, della legge 25 marzo 1993 n. 81, secondo cui “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi”. Era il 1994.
La legge paritaria fu dichiarata incostituzionale
Successivamente il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza del T.A.R. Molise (che aveva respinto il ricorso interpretando la citata disposizione come una proposizione legislativa priva di valore precettivo) sollevò la questione di legittimità costituzionale della legge 25 marzo 1993 n. 81 in riferimento agli artt. 3, primo comma, 49 e 51, della Costituzione. La Corte Costituzionale, Presidente il prof. Antonio Baldassarre, pronunciò, nel 1995, la sentenza di illegittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81, e nelle motivazioni, tra l’altro, citò la convenzione sui diritti politici delle donne, adottata a New York il 31 marzo 1953; rammentò che il Parlamento europeo con la risoluzione n.169 del 1988, aveva invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili, “… ed è significativo – scrisse la Corte – che l’appello sia stato indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l’impraticabilità della via di soluzioni legislative”.
La Val d’Aosta rimise tutto in gioco
Ma più avanti si ricominciò daccapo, quando il Consiglio regionale valdostano, nella seduta del 25 luglio 2002 inserì l’art. 3-bis, sotto la rubrica “condizioni di parità fra i sessi”, in cui scrisse: “ogni lista di candidati all’elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi”.
L’avvocatura di Stato sollevò ancora la questione di legittimità costituzionale
Il ricorso, notificato dell’Avvocatura dello Stato, era del 2 settembre 2002. Il Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi sollevò la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, e altri. Secondo l’Avvocatura, si era riproposta la stessa situazione della sentenza n. 422 del 1995, che aveva dichiarato illegittima la legge 25 marzo 1993, n. 81, sulla elezione diretta del sindaco, e dei consigli provinciali e comunali, per contrasto con gli artt. 3 e 5l della Costituzione.
Poi finalmente ci fu da brindare
L’opinione dei movimenti di donne era naturalmente contraria al ricorso del Governo. Decine di interviste e comunicati stampa furono rivolti a manifestare duramente contro la richiesta di illegittimità costituzionale delle norme elettorali valdostane. La prima forma di protesta suggerita da una riunione della Commissione Nazionale Pari Opportunità (CNPO) con le Presidenti dei Consigli regionali a cui partecipò anche la stampa fu quella di inondare di fax gli uffici del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica. Per farla breve la Corte Costituzionale, Presidente Riccardo Chieppa, il 10 febbraio 2003, accolse le motivazioni delle regioni Val d’Aosta e Campania asserendo che in definitiva “il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva” . Dichiarò quindi non fondata la questione di legittimità costituzionale proposta dall’Avvocatura di Stato per conto del Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi. Noi brindammo al Pub Peroni di Santi Apostoli. Ma dappertutto c’era aria di festa.
Va detto che, già da allora, i Radicali, il PRC, i DS (ora PD), e i diversi componenti dell’attuale SEL, si distinguevano tra i partiti culturalmente aperti alla democrazia paritaria. Nel Congresso del novembre 2006 Rita Bernardini fu eletta segretaria di partito, la seconda dopo Adelaide Aglietta (1976), ed assoluta novità nel panorama politico nazionale del periodo. Un’alternanza di genere tra i segretari radicali che continuò con Antonella Casu e di nuovo, tuttora con Rita Bernardini in carica.
Con l’Udi non volevamo quote, e nemmeno propaggini
Volevamo parità di accesso, misurando competenze e talento politico. Ma come si fa? Se non sei dentro le segreterie centrali dei partiti e non fai le liste non c’è alcuna possibilità. Allora la soluzione son le quote? Ma c’è il rischio che se avvantaggino le fidanzate dei capi.
“Brave donne, battetevi per le pari opportunità”, mi diceva ogni tanto qualche coordinatore di questa o quella regione. “ Chiedete spazi che poi farò venire anche mia moglie”.
“E noi infatti ci stiamo impegnando per tua moglie!” era la risposta piccata.
Ma di amanti e fidanzate ne abbiamo contate molte. Io le chiamo propaggini. Cioè piante di derivazione che non vivono di vita propria ma daranno (se ne daranno…) frutti della pianta originaria. Nessuna autonomia. Maschilismo in veste femminile. E se si tratta invece di maschilismo totale in veste maschile non è peggio? Allora qual è la soluzione? Potrebbe essere utile un breve nota di opzioni di buon senso :
a) Prevedere che negli uffici di presidenza dei partiti tradizionali abbiano accesso le donne con curricoli che attengono ad un impegno sociale rilevante (storia personale, affidabilità, iniziative di interesse pubblico, fattori umani e culturali );
b) Pianificare sempre le primarie per le candidature;
c) Affidarsi alla rete. La formula con la Piattaforma on line basata sulla partecipazione di iscritti certificati è sicuramente un percorso di democrazia. I candidati li sceglie la gente comune, purché si siano registrati ad un dato movimento e partecipino seriamente alle consultazioni via Internet.
Mi pare che quella di M5S sia oggi una realtà apprezzabile per come vanno fatte le scelte politiche, non solo le candidature. Gli iscritti vengono invitati a votare. Non importa se solo una percentuale adempie. La possibilità è data a tutti. Vale chi risponde ed esprime il suo voto, per le leggi, come per le valutazioni dei candidati. E’ un buon esercizio di democrazia. Chi sa fare di meglio lo dica e lo dimostri.
14 marzo 2014, Wanda Montanelli
22 thoughts on “Quote e democrazia paritaria, ancora una volta la rete dà lezione”