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COME ALLA CAIENNA

In “Papillon”, libro autobiografico di Henry Le Charriere, i carcerati non avevano di che stare allegri, ma anche allora un massacro così gratuito, stupido e crudele come quello capitato a Stefano Cucchi sarebbe stato incomprensibile

Può capitare in certi posti che un giovane arrestato per pochi grammi di droga venga massacrato di botte, fratturato in più parti del corpo tanto fino al punto da morirne in ospedale da solo come un orfano, senza poter vedere né i suoi genitori, né il suo avvocato. Paesi incivili. Chissà dove sono. In Birmania, Thailandia, Kenya? No a Roma. Quando? Secoli fa? No. Nel mese di ottobre 2009. Adesso. Questo il rapporto di “Chi l’ha visto”, Raitre: “Stefano Cucchi, 31 anni, è stato arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre al parco degli Acquedotti di Roma per il possesso di 20 grammi di hashish. E’ stato accompagnato a casa per la perquisizione e quindi in una cella di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza. Al momento dell’arresto, secondo quanto riferito dai familiari, stava bene e non aveva segni di alcun tipo sul volto. La mattina del 16, all’udienza per direttissima, il padre ha notato che era magro e gonfio in faccia ma camminava da solo, senza bisogno di sostegno. La sera di sabato 17 è stato comunicato alla famiglia che Stefano Cucchi era stato trasferito d’urgenza al reparto detentivo dell’ospedale “Pertini”, sembra per “dolori alla schiena”. I genitori si sono precipitati a fargli visita, ma non sono stati ammessi né sono riusciti a parlare con i medici. Il permesso è stato loro accordato per giovedì 22, ma la mattina di quel giorno Stefano Cucchi è morto. Il 29 ottobre la famiglia ha indetto una conferenza stampa insieme con l’associazione “A buon diritto. Abbiamo notizie che ricoverato all’ospedale Pertini il ragazzo chiedeva di parlare con il suo avvocato. Non gli è stato concesso. Tantomeno gli hanno permesso di vedere i suoi familiari. A un omicida incorreggibile avrebbero riservato un trattamento più umano e legale. Sappiamo dell’aggressione perché un detenuto testimone che ha condiviso una stanza con Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli ha potuto ascoltare Stefano che diceva: Hai visto come mi hanno riempito di botte?”. “Come si può far morire in un ospedale una persona in quel modo? – si interroga Fabio Anselmo, suo avvocato che in una nota alla stampa prosegue – Dicono che Stefano rifiutava il cibo e le bevande, mi chiedo come sia possibile che non sia stato intubato”. Da fonti di radio radicale risulta che il ragazzo non stava facendo lo sciopero della fame per motivi “strani”, ma molto concretamente voleva ottenere un colloquio con il suo avvocato. Però come avviene nei peggiori paesi totalitari a Stefano non è stato permesso di vedere il suo legale. Hanno ritenuto più opportuno che morisse portando con sé nell’oblio i nomi e i cognomi dei suo spietati massacratori. Come nel libro nero delle carceri più famose per inciviltà, quali Tadmor Military Prison, in Siria; La Sante Prison, Francia; La Sabeneta Prison, Venezuela; Carandiru Penitenziaria, Brasile; Rikers, New York; Prison Diyarbakir, Turchia; San Quentin State Prison, in California; Prigione ADX in Colorado; Prison Nairobi, Kenya. Siamo nella stessa lunghezza d’onda di luoghi di pena che credevamo molto lontani dalla nostra civiltà. Invece la brutta pagina scritta in Italia, patria di Cesare Beccaria ci fa tornare indietro di secoli (Dei delitti e delle pene, 1764). Scriveva Beccaria che la pena “deve essere attuata prontamente”, altrimenti perderebbe il suo effetto educativo, che “la pena di morte è ingiusta in quanto immorale e antieducativa e non si può insegnare a un popolo a ripudiare l’omicidio, se lo Stato stesso ne fa uso”. I pareri dei nostri politici sulla brutale aggressione sono vari e diversi Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha rimandato agli esiti dell’indagine in corso. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, ha vece sollecitato l’intervento del Governo in Parlamento per necessità di fare chiarezza sulla vicenda. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha accolto l’istanza ed ha riferito il 3 novembre in Senato rivelando che il giovane avrebbe negato l’autorizzazione ai medici di informare i propri congiunti. Il senatore del Pd Ignazio Marino, ha inviato i Nas all’ospedale Pertini per raccogliere tutta la documentazione disponibile. Nel frattempo dichiarazioni di stupore si registrano come quella del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e del segretario dell’Udc Cesa che ritengono sconvolgente l’accaduto, insieme a numerose altre sullo stesso tono. Il sindacato di polizia penitenziaria, (Osap) sollecita l’accertamento della verità attraverso il suo segretario Beneduci che afferma: “Nessuno ha mai detto che la responsabilità della morte di Stefano Cucchi sia dei Carabinieri, ma di certo non è della polizia penitenziaria, ed a chiamare il medico della città giudiziaria sono stati gli agenti di polizia penitenziaria perché Cucchi si sentiva male”. Insomma dichiarazioni caute alcune, foderate di cinismo altre, ma come Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza, non c’è stato nessuno che abbia tentato di voler coprire un cratere con un cerottino. Il sottosegretario Giovanardi ha detto alla trasmissione ‘24 Mattino’ su Radio 24: “Stefano Cucchi è morto perché ‘anoressico, drogato e sieropositivo’. Era in carcere perché era uno spacciatore abituale. La verità verrà fuori, e si capirà che è morto soprattutto perché era di 42 chili”. Che dire di una così inadeguata dichiarazione? La sieropositività sembra risultare solo a lui, come solo a lui risulta che possibili conseguenze da ‘anoressia e assuefazione alla droga” siano ossa rotte, occhi pesti, gonfiori ed ecchimosi dappertutto. La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi nel dolore della perdita del fratello classifica come vergognose e diffamanti le affermazioni sullo stato di salute di suo fratello e le percepisce come un vero e proprio atto di sciacallaggio. “Vogliamo sapere che cosa è successo”, insiste Ilaria insieme al padre. Alla domanda: Come è morto Stefano Cucchi? Sembra dare alcune risposte il senatore Luigi Manconi, portavoce dei Verdi: “Ho avuto modo di vedere – afferma – le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata. È inconfutabile che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi – come testimoniato dai genitori – è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale”. Alla faccia del trattamento educativo! Altri casi di criminalità carceraria sono conosciuti oltre a quello di Stefano Cucchi: Diana Blefari Melazzi, brigatista suicida di pochi giorni fa. Soffriva di “grave disturbo psicotico della personalità”. Nulla è stato fatto per impedire la sua morte annunciata. Che valore ha la vita di un uomo in carcere? Il giornale “La Città di Teramo”, ha ricevuto e divulgato un nastro in cui è possibile ascoltare degli agenti di polizia penitenziaria dire: “Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto… Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto” e la Procura di Teramo ha ora aperto un’inchiesta. Il Corriere di Rimini riporta che un uomo di 41 anni di Bari è stato condannato nell’agosto 2008 a 4 anni e 5 mesi per il furto di uno zaino in spiaggia. Per una serie di aggravanti fra cui la recidiva specifica e il fatto che si trovava in Romagna in violazione delle misure di sorveglianza alle quali era sottoposto. Che significa? Uno zaino è uno zaino. Ci sono assassini che quattro anni di condanna non li hanno mai avuti. Martedì 16 novembre, nel carcere di Palmi (Reggio Calabria) un uomo di Bari arrestato per un reato commesso a Rimini, visti gli inutili tentativi di ottenere gli arresti domiciliari in una comunità di recupero, disperato si è tolto la vita in cella con il fornellino del gas. Nessuno lo aveva avvertito che provvedimento di scarcerazione era già arrivato da più di 24 ore negli uffici del penitenziario, grazie alla richiesta dell’avvocato Martina Montanari che era stata accolta dalla Corte d’Appello di Bologna. Dal 1980 al 2007, 1.371 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane (con frequenza dei suicidi 21 volte superiore rispetto al resto della società. Questo accade mentre l’ordinamento penitenziario riguardo alla rieducazione dei detenuti prevede: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento é improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. Invece botte da orbi. E un massacro che nella prigione della Guyana francese, l’isola del diavolo, sarebbe stato troppo crudele, specie se davvero il ragazzo era anoressico, quindi debole e privo di alimentazione. I medici avrebbero dovuto somministrargli alimenti e idratazione con i mezzi a loro disposizione. Qualcuno deve rispondere e spiegare: chi ha ucciso Stefano Cucchi? Senza risposte certe l’affare si fa ancora più inquietante. Sarebbe come ammettere che esistano interregni, in cui le leggi italiane non hanno significato. Come dire “terre di nessuno”. E questo non si può accettare. Fingendo di nulla diverremmo tutti bastardi come coloro che hanno ucciso Stefano. 3 dicembre 2009, Wanda Montanelli

A BRESCIA A BRESCIA!

Concita De Gregorio, eccole le donne perché non ne fa un editoriale? Ci siamo sentite in colpa ad agosto perché si ricercavano le donne assenti, e per quelle di noi che nei dieci giorni di mare non ne volevano sentire di politica sono affiorati rimorsi tali da rendere amaro il gelato al pistacchio e fredda la frittura di calamari. Scambi di telefonate tra noi donne di varie associazioni “ma hai letto che scrive l’Unità?” Ho letto sì. – Unità 12 agosto: «Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»; – Unità 13 agosto: «La rivoluzione interrotta delle donne»; – Unità 14 agosto: « Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce», di Lidia Ravera; – Unità 17 agosto: « Benedetta Barzini: alcuni indizi sul mutismo delle donne»; – Unità 20 agosto: «Primo: rompere il silenziatore su ciò che fanno le donne» di Livia Turco; – Unità 21 agosto:«Scambio tra corpi, poteri maschili nel silenzio che pesa» di Elettra Deiana; – Unità 21 agosto: «Care donne (e uomini sani) ora va vinta l’indifferenza» Insomma ci hanno “sbomballato”. Sarà stata la penuria di notizie durante la calura estiva che ha indotto a tirar fuori dal dimenticatoio le donne, o sarà che ci si aspetta dalle donne che siano risorsa sempre e che dopo aver fatto le doppiolavoriste per tutto l’anno organizzino manifestazioni agostane per movimentare la noia dei vacanzieri in città. E dire che qualcuna ci ha creduto. “Dai organizziamo una manifestazione!” era il ritornello nella segreteria telefonica , nelle email o al telefono. Ma che organizziamo – scimunita che non sei altro – in pieno agosto? “Colmiamo il vuoto!” “Sì, quello del cervello. Facciamo da tappabuchi!” Tappabuchi altro ruolo in cui le donne sono formidabili metamorfiste. Un mestiere in più fra tanti che fa curriculum: lavoranti, mogli, madri, dattilografe di casa, amministratrici, cuoche, infermiere, amanti, sorelle, e… TAPPABUCHI! Ma che fa! Anche questa funzione va bene… Purché se ne parli diceva Oscar Wilde. In fondo val la pena di cogliere un’opportunità perché di ciò che le donne pensano o fanno se ne dice sempre troppo poco. Come? Le tv ne son piene! Direbbe qualcuno ricordando seni e glutei a volontà. Ed è lì il disastro. Pensare troppo al contenitore e nulla al contenuto. Ma un po’ cambia ultimamente il vento. Sarà perché la gente è stanca di grossolanità, sarà per la critica feroce della stampa estera. Leggo Wolfgang M. Achtner, l’autore di “Il reporter televisivo. Manuale pratico per un giornalismo credibile” che da anni ormai punta il dito contro il giornalismo e la tv nostrane. Sarà perché i tempi son maturi e la domanda è superiore all’offerta. Ci si sta rendendo conto che le cose di donne interessano. Tanto è vero che il documentario “Il Corpo delle donne” è stato visto da migliaia di persone in poco tempo dopo la sua pubblicazione. Lorella Zanardo ce lo ha raccontato durante l’incontro con la Stampa estera del 5 novembre alle 12.00 dove Concita De Gregorio (assente ingiustificata ) doveva essere con Rosy Bindi, la Zanardo e me a raccontare se le donne sono “Silenti o silenziate”. Le domande di Megan William che coordinava gli interventi tendevano a scandagliare le motivazioni sociali che rendono così singolarmente in ritardo l’effettiva cittadinanza femminile italiana. L’attacco alla tv nostrana da parte di Achtner ha trovato un temperato distinguo da parte di Rosy Bindi che ha replicato che pur essendo un prodotto discutibile il G.F. è comunque di derivazione estera. E’ vero infatti che lo abbiamo importato come tanti format di cui non dovremmo avere bisogno dati i costi della tv pubblica e i talenti di autori completamente ignorati. La differenza tra noi e gli altri paesi è che qui il GF. ce lo propinano in tutte le salse e se non vuoi proprio vedere devi fare saltapicchio tra decine di programmi che te lo ripresentano. Siccome non si riesce ingoiarlo nemmeno liquido (“manco ‘a bbrodo ne mastica!” dicono in Sicilia), diventa una fatica scansarlo perché i tg, i talk show, i programmi naturalisti, le strisce e quant’altro ti rimettono la minestra riscaldata e becera davanti agli occhi e fai fatica a riuscire a “non vederli!” Persino la Gialappas band che diverte da matti non si può più vedere perché il tranello del Grande fratello emerge come sughero nel mare anche tra le loro facezie spassose. Mi sono posta come punto fermo il non voler vedere i GF. Non l’ho mai visto, non ne conosco i personaggi né intendo conoscerli. Ebbene vorrei vincere la mia scommessa. Ma è dura! Se un decimo del tempo perso appresso al G.F o all’Isola dei (presunti) famosi (riproposta quasi con la stessa insistenza) lo si dedicasse alle idee delle donne, alle loro iniziative, anche quando come il più delle volte accade non sono “portate” dai partiti, si farebbe un livellamento verso l’alto della qualità dell’offerta di tv che, sebbene generalista, si mostra particolarmente insofferente verso il genere, quantomai ostico ai programmatori di palinsesti, “Donna pensante”. Stessa cosa si può dire della stampa, tranne qualche caso in cui si avanza timidamente il tema. Mi rivolgo a Concita Gregorio, che lamenta l’assenza delle donne, tuttavia poco o nulla scrive delle donne che sono in piazza. Invece quante cose fanno le donne. L’Udi ha da un anno iniziato il tour d’Italia da Niscemi a Brescia, per segnare di paese in paese la protesta e lo sdegno. Ci sono migliaia e migliaia di donne che in questo anno si sono spese di centro sociale, in teatro di periferia, da piazze importanti e strade buie teatro di aggressioni. Dove risulta tutto questo? In Donna-tv? Grazie Eleonora Selvi e Salima Balzerani! Ma tutti gi altri dove guardano quando le donne stanno in piazza? L’Udi, L’Onerpo, Donne in Quota, e decine di altre associazioni hanno seguito il viaggio che ha toccato ogni luogo d’Italia. Ma non vi viene la curiosità di sapere chi sono queste donne che si spendono per anni gratis, che sognando il cambiamento organizzano, scrivono, si chiamano, si autotassano, si fanno da sé i manifesti, le foto, i filmati, gli articoli sui blog, i turni massacranti dopo il lavoro. Chi sono, cosa pensano, che vogliono? Non vi incuriosisce tutto questo. Di che giornalismo vi occupate? Solo quello delle segreterie dei partiti? Ma porca miseria la gente è per strada ed esprime pareri e bisogni anche senza tessere in tasca! Concita faccia la sua parte. Si chiama “STAFFETTA DELLE DONNE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE” e il nome stesso espone la nostra forza e il nostro limite. Senza cappelli e simboli, senza caporali padroni. Donne da ogni dove, credenti e atee, di destra e di manca e di centro. Associazioni ecologiste, animaliste, femministe, femminili, evangeliche, buddiste, musulmane, ebree. Non ce ne importa un fico secco. Qualunquiste? No qualunquisti siete voi, che portate a casa un qualunque vantaggio da chi è disposto a darvene. Noi abbiamo le idee chiare su ciò che vogliamo e spesso per raggiungere i nostri obiettivi ci rimettiamo in proprio. Oggi lo scopo che ci porta in piazza è quello di dare un forte segnale di dissenso contro la violenza. Domani ci sarà altro. Ci aspettiamo un editoriale. Altrimenti il prossimo agosto non rompete i marroni e lasciateci mangiare il fritto di mare in pace. 20/11/2009 Wanda Montanelli

CAVALLI DI TROIA CRESCONO DA NOI

Non è tardi per interrogarsi su che fare e programmare sani anticorpi contro la globalizzazione incontrollata “Da te si mangia il miglior cous cous mai provato” dicono i commensali che partecipano al “Cous cous della Pace”, una festa ormai venticinquennale, fatta in giardino tra profumi di spezie e musica orientale. La nostra ricetta speciale accoglie la sapienza gastronomica di arabi ed ebrei, acquisita e mediata dalla permanenza in africa di miei parenti che hanno fatto tesoro delle tradizioni e del gusto locale, tramandando la “segreta” miscela di ingredienti che conservo come una reliquia e rileggo una volta l’anno decifrando a fatica la scrittura ormai sbiadita. Dai racconti degli italiani vissuti in Tunisia, in Eritrea, e in Marocco si apprende dell’esistenza di realtà geografiche dove non soltanto i contrasti razzisti non avevano asilo, ma le diversità culturali, anche gastronomiche, riuscivano a fondersi in modo così straordinariamente pregevole da riuscire ad arricchirsi l’un l’altra, originando nuove realtà sociali e inedite prelibatezze culinarie, così come testimoniato da alcuni nostri emigrati europei che hanno potuto vivere tra razze diverse in completa collaborazione e rispetto reciproci. Da qui il “Cous cous della Pace” che degustavano le famiglie di italiani invitate alle mense di popoli ospitali quanto pacifici. La lunga premessa è per dire che ci piace il mondo a colori e rispettiamo le etnie più dissimili da noi. Tuttavia l’entusiasmo per le altri culture non ci impedisce di fare attenzione a tante ripercussioni negative conseguenti al rimpicciolimento del mondo e alla fisiologica trasmissione di valori, disvalori e agenti nocivi. IL PUNTERUOLO ROSSO GIRA MEZZO MONDO E NON RIUSCIAMO A LIBERARCENE Partiamo dal punteruolo rosso, un insetto lungo fino a 5 cm. che ama infilarsi nel fusto delle palme per prolificare e distruggerle. In tanti si staranno chiedendo che cosa fa il Ministero dell’Ambiente per affrontare la morìa di questa palma che sta sparendo dai giardini privati, parchi pubblici, aiuole scolastiche, zone costiere. Il punteruolo rosso ha preso alloggio in ogni grande o piccola palma per nutrirsi della sua sostanza e distruggerla. I tutto avviene in pochissimo tempo. L’insetto è voracissimo e si possono udire i rumori delle sue mandibole con uno stetoscopio, o addirittura solo appoggiando l’orecchio al fusto della palma. Se vi accorgete anche voi che bellissime piante esistenti nei vostri paraggi hanno d’improvviso un ramo un po’ abbassato, osservatele il giorno dopo e vedrete che i rami saranno alcuni e dopo una settimana la pianta avrà tutte le foglie appassite, e sarà morta, irrimediabilmente. Su Wikipedia si informa che il ‘Rhynchophorus ferrugineus, questo il nome scientifico del punteruolo, è originario dell’Asia sudorientale e della Melanesia, dove è responsabile di seri danni alle coltivazioni di Cocos nucifera. A seguito del commercio di esemplari di palme infette la specie ha raggiunto negli anni ottanta gli Emirati Arabi e da qui si è diffusa in Medio Oriente (segnalata in Iran, Israele, Giordania e Territori palestinesi) ed in quasi tutti i paesi del bacino meridionale del Mar Mediterraneo (a partire dall’Egitto dove è stata segnalata per la prima volta nel 1992); risalita sino alla Spagna (prima segnalazione nel 1994), ha successivamente raggiunto la Corsica e la Costa Azzurra francese (2006). La prima segnalazione in Italia è del 2004 e si deve ad un vivaista di Pistoia che aveva importato delle piante dall’Egitto; nel 2005 viene segnalato in Sicilia e quindi in veloce diffusione verso il Nord della penisola: arriva in Campania, portando a morte centinaia di palme secolari in parchi pubblici e nei giardini privati, in Lazio, torna in Toscana ed è infine anche in Liguria’. Le cure costano migliaia di euro senza garanzia di riuscita. L’abbattimento costa da 500 a 1500 euro per palma. La cosa più pratica è tagliarla alla base e bruciare, con la stessa palma, quantità enormi di insetti pronti a volare su una pianta e un’altra ancora in brevissimo tempo. La cosa è così grave che sta infettando tutti i palmizi. Il ministro dell’Ambiente, gli esperti dovrebbero divulgare una profilassi per salvare quello che resta di questi esemplari e trovare un sistema per liberarsi del punteruolo che, temo, una volte estinte le ‘Phoenix canariensis’ andranno sulle palme nane, le agave, ‘Washingtonia filifera’, e chissà forse mutando potranno accorgersi che gli piacciono anche, un domani, i ciliegi. Sembra che con un sistema basato su un trattamento di microonde si riesca a risolvere qualcosa. E’ stato un errore sottovalutare il “Rhynchophorus ferrugineus”, così come lo è il lasciar correre casi in cui l’ospitalità non regolata può cambiare i principi della convivenza civile e modificare in peggio l’esistente. CONCORRENZA SLEALE, LE COLPE DEI PROPRIETARI DEI MARCHI ITALIANI La trasmissione di Milena Gabanelli domenica 18 ottobre, dal titolo “Una poltrona per due” con l’impegno di sempre ci ha portati nelle fabbriche di mobili della civile Romagna, ma potremmo entrare in quelle di tessuti di Prato o in quelle di scarpe dell’ hinterland napoletano (Terzigno-San Giuseppe-Ottaviano-San Gennaro) . Sarebbe lo stesso più o meno. Su Report, nel servizio di Sabrina Giannini, abbiamo appreso come hanno chiuso le artigiane che fornivano di divani il marchio “Poltrone Sofà”. Il servizio espone con garbo mostrando i filmati: “Queste donne hanno creato dal nulla. Sono artigiane del divano. Realizzano quel marchio pregiato che è il Made in Italy. Manuela Amadori cuce e assembla i divani. Elena Ciocca ha una sartoria per cucire i rivestimenti. La vita di queste due imprenditrici è cambiata due anni fa quando la loro solitaria denuncia ha svelato un volto inedito della ricca operosa Forlì”. Il servizio spiega poi come le due imprenditrici con il cuore lacerato hanno dovuto chiudere la fabbrica e licenziare i loro dipendenti. Invece i proprietari di Poltrone Sofà, arredi reclamizzati come Made in Italy ma prodotti da cinesi sfruttati e sottopagati, moltiplicano, presumo, i loro introiti in maniera esponenziale. Se Forlì piange, la Brianza non ride, e tanto per portare uno degli esempi di sfacciate violazioni di regole del lavoro, andiamo a Lentate sul Seveso, dove le accuse contestate ai fratelli Antonio e Tiziano Colombo della “Chateau d’Ax spa”, sono “sfruttamento di manodopera clandestina e impiego di clandestini”. Secondo il sostituto procuratore del Tribunale di Monza Donata Costa, che ha indagato e accusato gli imprenditori italiani in concorso con due cinesi titolari di società nella zona, “sarebbero stati confezionati o imbottiti divani e poltrone destinati alla Spa a costi fuori mercato con lo sfruttamento e l’impiego di manodopera di operai cinesi. Lavoratori anche clandestini, che avrebbero lavorato in questi laboratori gestiti dai connazionali con turni massacranti, in stanzini ricavati uno accanto all’altro dove cucivano, mangiavano e dormivano, le donne con accanto anche i loro bambini piccolissimi tra le scorte di alimentari e di carne”. CI ERAVAMO ILLUSI CHE LA FINESTRA SUL MONDO AVREBBE ELEVATO LA QUALITA’ DELLA VITA Globalizzare avrebbe dovuto mostrare ai popoli meno avanzati nei diritti un modello di regole nel lavoro, nell’uso del tempo libero, nel rispetto umano. Invece siamo diventati tutti cinesi. Ci siamo cioè livellati verso il basso, nel senso dell’involuzione sociale, e in alcuni casi oggi la scelta è: o diventi cinese o non mangi. Con tutto il rispetto per la cultura antica, la sapienza cinese di Confucio e Lao Tzu, e a questo proposito suggerirei la lettura del libro di Sanjiao, qui si intende porre l’accento sui mancati diritti di chi esiste, vive e lavora e sopravvive nella completa assenza di tutele, e immigrando in Italia accetta di continuare ad essere sfruttato. CONCORRENZA SLEALE, LE COLPE DEI PROPRIETARI DEI MARCHI ITALIANI Le fabbriche di Forlì hanno chiuso perché le artigiane dovevano pagare il costo del personale, i contributi di legge e in più le materie prime come legno, imbottiture, colla, chiodi e materiali diversi. Un divano a loro veniva pagato manodopera compresa duecento euro. Un prezzo da fame. Hanno chiuso perché non potevano sostenere il costo di produzione; i cinesi invece incassano duecento euro a divano e pagano pochi spiccioli ai loro connazionali che stanno lì a incollare e cucire per venti ore al giorno. Il paradosso è che sta nascendo la concorrenza tra cinesi perché c’è sempre qualcuno pronto a contentarsi di meno: centottanta, centosettanta euro per lo stesso divano. E noi permettiamo nella patria del diritto, che dopo anni di lotte per gli statuti e i contratti sindacali, questi lavoratori stranieri siano sfruttati lavorando come schiavi ? L’economia è ferma? Per forza. I padroni mobilieri, che poi mobilieri non sono perché comprano a prezzi da carestia divani fatti da cinesi in cattività, porteranno i loro soldi nelle banche nostrane o estere, e i lavoratori stranieri con il poco che guadagnano potranno forse mettere insieme la cena e il pranzo. Non altro. Che fanno i sindacati? Che fanno i ministeri interessati (Lavoro, Salute e Politiche Sociali, Sviluppo economico, Economia e Finanze) ? La concorrenza sleale è un reato, lo sfruttamento di lavoratori italiani o stranieri è un reato. Così come il made in Italy della Ferrero ha vinto presso la Corte Suprema di Pechino la causa per concorrenza sleale contro la cinese Montresor che aveva commercializzato una linea di cioccolatini identica ai Ferrero Rocher, si dovrebbe in Italia stabilire che il divano fatto da lavoratori clandestini sfruttati non può avere il marchio “made in Italy” perché in Italia ci vergogniamo di quel divano. IL POSTO FISSO DI GIULIO TREMONTI La rivalutazione del posto fisso fatta da Tremonti è una presa di coscienza allo scopo di far quadrare i conti. Se non è solo propaganda, il rapido calcolo del ministro arriva presto a comprendere che cosa compra un precario, cinese o italiano, e che cosa, invece, può comprare un lavoratore con una busta paga non risibile e un contratto a tempo indeterminato. Bene, si comincia dal pagare l’affitto o il mutuo e le bollette. Si esce dalla casa paterna per mettere su un nuovo nido. I “bamboccioni”, come li si volle infelicemente apostrofare tempo fa, potendo contare su ciò che gli avanza dalla busta paga, potrebbero accendere un leasing. L’ottimismo viene da sé quando si incomincia a dormire la notte senza arrovellarsi sul tempo che passa tra un contratto di tre mesi, un intervallo di quattro e un altro lavoro da co.co.co o co.co.pro. Il progetto di comprare un’auto, per esempio, con l’ottimismo non si realizza. Anche usata una macchina costa migliaia di euro e porta con sé il costo del passaggio di proprietà, il dovere di assicurarsi. Senza soldi non si può fare. Hai voglia di essere sorridente e ottimista; del buon umore le concessionarie non sanno che farsene e appena si accorgono che il contratto del proponente acquirente scade da lì a poco, chiudono il colloquio e restano meno sorridenti e tristi pure loro. Mettere su casa e ordinare il frigorifero, riempirlo di mozzarelle e prosciutto, permettersi la stufa. Magari una volta o due al mese andare fuori a cena e progettare una vacanza, o addirittura la nascita di un figlio. Tanti bamboccioni sistemati genererebbero figli, passeggini, culle, latte, scarpette; quantità importanti di prodotti per l’infanzia e l’economia che avanza. Questo può fare il lavoratore a tempo indeterminato. Può incontrare una ragazza e dirle: ci sposiamo? O un single può uscire di casa e investire sulla sua autonomia. L’altro invece, il lavoratore a scadenza, si preoccuperà di quale ultimo modello di telefonino potrà avere per rendersi considerevole agli occhi degli altri, e questo lo farà sentire meno fallito, meno precario, dovendo rinunciare a ipotizzare una crescita del suo status per il futuro. Stabilito che molti imprenditori disonesti potendo scegliere, scelgono gli schiavi, salviamo quelli onesti e consideriamo pure la flessibilità umana una risorsa, quando è scelta motivata dall’imprenditore e preferita dal lavoratore al quale può anche far comodo e piacere in certi periodi della sua esistenza. Un buon governo dovrebbe però provvedere a un sistema di welfare con ammortizzatori sociali per gli intervalli di passaggio tra un lavoro è l’altro, e se esistesse la copertura economica dei temporaneamente disoccupati, sarebbero in molti a preferire il cambiamento senza fossilizzarsi nella stessa attività per decenni. Fin quando però il precario è un poveraccio senza futuro né prospettive, fin quando la flessibilità serve solo ad ingrassare gli sfruttatori del lavoro altrui con paghe al di sotto della media anziché maggiori proprio perché di comodo per il progetto del datore di lavoro, evviva il posto fisso! Avanzano modelli di vita da paesi sottosviluppati per la nostra indifferenza verso lo sfruttamento delle persone: donne, uomini, bambini. La Cina è vicina? No la Cina è entrata con un cavallo di troia nelle nostre città dentro la pancia delle quali esseri umani ammassati sopravvivono per portare a tavola una ciotola di riso e dare al padrone di turno l’agio di moltiplicare i suoi guadagni purtroppo senza imbarazzo. Si trasgrediscono leggi e diritti e nessuno interviene. Dove sono le Camere del lavoro? Cavalli di troia crescono da noi e poco o nulla si fa per abbatterli. Possiamo farcela a mettere equilibrio e ordine. Può essere più facile a farsi che a dirsi. Si potrebbe iniziare a fare una legge che prevede la filiera di produzione per ogni oggetto che si vende in Italia. Tempo fa avevo progettato il “marchio etico” per le merci provenienti dall’estero. Si dovrebbe prevederlo anche in Italia. Un piccolo marchio di qualità in cui sia scritto “la produzione di questo oggetto è controllata affinché il ciclo produttivo sia effettuato con lavoratori in regola con le norme vigenti”. La pubblicità del marchio? : “Niente bambini né schiavi per costruire i prodotti con marchio etico”. I trasgressori? Direi che non sarebbe male il ritiro della licenza e un’incriminazione per schiavismo. Così i bianchi divani pubblicizzati alla tv non saranno umidi del sudore di poveri esseri sfruttati e delle lacrime di chi ha perso il lavoro italiano. 25 ottobre 09 Wanda Montanelli

L’INFORMAZIONE LIBERA DI RADIO RADICALE

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Il servizio pubblico a doppia corsia che radio radicale compie da trent’anni è patrimonio di tutti. Nessuno oggi è in grado di fare altrettanto

Soldi ben spesi i dieci milioni di radio radicale nel contratto triennale. Quanti soldi pubblici si buttano via per dissimulati tentativi di comunicazione democratica, o per opportunistiche sottrazioni di proventi pubblici a scopi privati? L’alta professionalità delle trasmissioni di radio radicale che garantisce tutti è un modello che va mantenuto per la democrazia dell’informazione. La qualità del messaggio, l’equidistanza nella divulgazione di convegni, meeting, tavole rotonde, è una ricchezza universalizzata di cui non possiamo fare a meno. L’emittente nata nel 1975 su iniziativa di un gruppo di militanti radicali è stata la prima in Italia ad occuparsi esclusivamente di politica creando un modello di informazione nuovo, cristallino, integrale sugli eventi politici associativi e istituzionali. Senza censure, né preventive discriminazioni settarie nella scelta di cosa trasmettere e cosa no. L’esperienza di Barcamp per esempio, nell’ottobre 2008 presso l’Auditorium dell’Università Popolare in via 4 Novembre, è una delle tante che ha dato voce a centinaia di piccoli gruppi inascoltati giunti a Roma. (Conferenza-BarCamp “La crisi della (non)democrazia”). I relatori liberi sono partiti da ogni dove portando all’attenzione di milioni di ascoltatori questioni che sono nell’interesse comune anche se snobbati da emittenti pubbliche e private che seguono percorsi meno pluralistici nella divulgazione. Possiamo dire che radio radicale è il primo e unico esempio di ‘doppia corsia nella comunicazione’, una in andata e l’altra di ritorno. Le notizie vanno e vengono dal centro divulgativo alla gente, dalla gente al centro; dalle istituzioni alla radio, dalla radio ai cittadini che rimandano l’elaborazione di quanto si è ascoltato con proposte analisi, proteste, idee. C’è voce per tutti. Dal Turkestan al Tibet, dalla Sicilia all’Alto Adige. Tutti i partiti divulgano i loro congressi, ogni iniziativa che abbia un significato sociale e un interesse pubblico ha diritto di antenna su radio radicale. I carcerati di radio carcere hanno uno spiraglio di luce dal quale osservare l’esterno e attraverso cui mandare notizie della loro vita al di sotto della tollerabilità umana. L’ultima dalla prigione di Marassi a Genova fa sapere che lì le celle, invase da blatte grandi quanto lucertole, hanno 9 letti in pochi metri quadri rendendo palese a chi ascolta l’alienante privazione di quel minimo di dignità umana che dovrebbe essere garantita anche a chi ha sbagliato. Radio Radicale ha ideato trasmissioni per comunità di immigrati, interviste di strada, ‘filidiretti’ con ospiti politici. L’archivio storico di radio radicale è un documento pubblico di somma importanza, unico e irripetibile che restituisce a distanza di anni la registrazione di un seminario, la dichiarazione di un esponente istituzionale, il clima politico di un dato periodo. Radio radicale, il più grande archivio della democrazia italiana è storia della nostra repubblica, ed è raffinata scuola di politica. Una storia scritta su piste di registrazione vocale che non può, anche volendo, essere mal ricordata, modificata o interpretata, come potrebbe accadere su testi scritti. Salviamo la radio che è di tutti, anche di chi ha idee politiche diverse o addirittura avverse a quelle dei radicali. L’esercizio di democrazia a cui ci siamo abituati con radio radicale ci mancherebbe, se fosse annullato, come la razione quotidiana di vitamine. Nutrimento necessario per chi ha fame e sete di pluralismo e verità. Wanda Montanelli Roma, 23 0ttobre 2009 altre notizie

SANTORO, PERCHE’ TACERE SUL RESTO?

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La lente d’ingrandimento di AnnoZero ancora incentrata sugli aspetti pruriginosi del femminile in politica. A quando un’inchiesta seria e approfondita sulla mortificazione dell’impegno delle donne? Quando si dice una verità bisogna dirla tutta: troppo comodo dirla a metà dimenticando la parte che non ci piace.

Mi domando con rammarico perché Michele Santoro nel suo programma AnnoZero e in altri precedenti non abbia mai affrontato a fondo i tema dell’uso strumentale delle donne in politica di cui la D’Addario è solo una faccia della medaglia. Ad iniziare dal titolo “No Giampi, no party, viaggio nel sistema Tarantini”. Inviterei il Michele nazionale a leggere il mio post EUROPEE: NO DONNE NO PARTY del 14 giugno di quest’anno che guarda caso nasce dallo stesso problema di come si candidano le donne per le Europee e per le carriere di ogni genere, approfondito poi nel workshop di Fare Futuro, e finito male in famiglia Berlusconi per l’ indignazione di Veronica Lario. Contatti con la redazione del programma ne abbiamo avuti, ma sempre si è preferito non sviscerare tutto l’aspetto delle mortificazioni femminili che il più delle volte o si vendono, o hanno un protettore alle spalle, o non fanno neppure un passo avanti. Di storie di donne che hanno militato per anni credendo di poter incidere nel cambiamento della società con la forza delle proprie idee, l’impegno e la dirittura morale ce ne sono a centinaia. Il fatto è che nessuno le racconta perché non servono al medagliere di lotta politica di fazione. Si parla della vicenda della sottoscritta soprattutto in blog e siti liberi, su qualche quotidiano, ma in sordina perché le rivendicazioni di una donna guerriera mettono paura, specie se sono finite in tribunale citando il disprezzo degli articoli 3,2, e 51 della Costituzione; specie se si parla dell’impoverimento già congenito dell’economia femminile ulteriormente aggravato dall’appropriarsi di fondi destinati per legge alla “promozione delle donne alla politica” (Legge157/99, art.3), se si dice che mogli e amanti anche in altri partiti hanno la strada spianata per muovere passi agevolati come con il girello per bambini. Una causa per danno esistenziale, una richiesta risarcitoria globale di un milione e seicentomila euro, 170 testimoni citati tra cui noti uomini politici e attivisti, due scioperi della fame fino a 42 giorni con l’intervento del presidente Giorgio Napolitano; una stampa estera che ha divulgato la faccenda dal Canada alla Spagna, a tutta l’America Latina. (STAMPA ESTERA). Tutto questo non interessa Michele Santoro che dalla redazione una volta ci ha fatto sapere che ringrazia molto per i contributi documentali che puntualmente riceve dal Comitato che mi sostiene, un’altra volta mi fa chiamare da una loro redattrice per chiedermi di poter invitare delle “giovani attiviste”, che possano parlare in trasmissione della vita interna di partito, e poi quando fornisco loro nomi cognomi e relativi contatti telefonici, prima le contattano e le invitano, poi con un sms annullano la partecipazione (è comunque roba di alcuni mesi fa) per motivi, credo, pretestuosi. Forse non era piaciuta la canzone che le attiviste avrebbero cantato. Forse si preferisce un tono monocorde che replichi note che ormai tutti sappiamo a memoria. Concludo affermando che ritengo essere Michele Santoro uno dei più capaci professionisti della televisione. Maggiormente questo mi addolora. Offro a lui e a chi mi legge una fotografia in misura ridotta dell’altra faccia della medaglia, che volendo si può conoscere meglio e fare un vero servizio giornalistico politico e sociale. Wanda Montanelli