Category Archives: Pari Opportunità

Lettera ad uno stalker prima che uccida la sua donna

StalkerCaro Stalker,

permettimi di chiamarti così. Sono quasi sicura che tu rifiuterai questo appellativo perché non ti senti stalker, allo stesso modo dei violenti che non accettano di essere riconosciuti come tali, e gli assassini che rimuovono la loro ferocia quasi appartenesse ad altro da sé. Tuttavia da qualcosa bisogna partire per cominciare a parlare, ed io parto da qui. Sempre pronta a ricredermi però. Anche perché la decisione finale tra essere o non essere uno stalker è la tua.

 Sgomberando il campo dagli squilibrati che immaginano possibili storie con donne virtuali, nel senso che

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Schifezze d’uomini. Numeri 71 per la smorfia

stalkingA Napoli  la Smorfia li fa corrispondere al numero 71. Vittorio Feltri sul Giornale li definisce “schifezze d’uomini”, ed è raro che io condivida così in toto il parere di Feltri. Così al cento per cento è accaduto al tempo della causa contro Enzo Tortora a Napoli, nel 1985, quando lui fu l’unico a storcere il naso e dire che sentiva puzza di imbroglio. Gli altri, non tutti, ma molti dei giornalisti che affollavano il palazzo del Tribunale, festeggiarono a champagne per la sentenza di condanna, e pregarono a mani giunte, prima della lettura della stessa, per il timore di perdere la faccia per come avevano trattato l’inventore di Portobello.

Me lo ricordo Vittorio Feltri, eccome, con quella sua lucida analisi sulla “Domenica del Corriere” in cui spiegava che Tortora gli risultava pure un po’ antipatico, ma nonostante questo non poteva, da giornalista di rango, tacere e non manifestare il disagio che si prova quando si avverte che si sta facendo un torto a qualcuno, fosse anche l’ultimo dei nostri nemici. Rammento Feltri perché mi appresto a fare un discorso sul modo di produrre comunicazione che entra direttamente nella nostra quotidianità.

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Quote e democrazia paritaria, ancora una volta la rete dà lezione

Ha funzionato solo la scelta dal basso, quella della gente comune che evidentemente è più avanzata dei politici. La parità di M5S con le parlamentari scelte in Internet è per ora l’unica certezza tangibile

Raccolta di firme per l'iniziativa 50e50

E’ come un film già visto, o un’imitazione di un originale vissuto. La lotta delle donne per democrazia paritaria. Un argomento complesso. Il rischio a parlarne è che si voglia ridurre tutto ad una corsa per le poltrone. Non è così.
Giorni fa ho sentito al telefono Pina Nuzzo, già delegata nazionale Udi, animatrice di eventi di grande coinvolgimento tra cui la “Staffetta delle Donne contro la violenza” e “Immagini Amiche”. Mi ha chiesto dove reperire il filmato delle 120mila firme consegnate in Senato nel 2007 per la legge di iniziativa popolare 50E50.

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49 e 18

L’ACCOPPIATA VINCENTE IN DEMOCRAZIA

Contro l’illegittimità dei partiti retti autocraticamente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia (C. Esposito 1902-64)

Per anni non succede nulla, poi come per magia i nodi vengono al pettine. Finalmente! dicono tutti. Era ora, affermo io a maggior ragione, dal momento che della questione della democrazia all’interno dei partiti ne ho fatto tema di tante iniziative, sociali, politiche e, per non lasciare nulla al caso, anche una causa civile pendente presso il tribunale di Milano. Dicono che io sia una donna coraggiosa per aver toccato un tema così delicato. Ma non posso fare altrimenti, dato che di entrare in politica non me l’ha ordinato nessuno, e come tante donne l’ho fatto perché ho creduto fino in fondo ai dettami Costituzionali. Il 51 che ci rende pari (sulla carta). Il 2 e il 3 sull’inviolabilità dei diritti e sulla dignità sociale. Il 49, oggi attualissimo dopo le gestioni dispotiche dei tiranni di partito, incluse le appropriazioni indebite dei cassieri. Hanno rubato diritti, sogni, linfa vitale Voglio precisare una cosa che forse non è ben chiara a tutti. Questi soldi asportati da tesorieri truffaldini non hanno fatto solo un danno economico ma un enorme danno di democrazia. Sono stati rubati i sogni, la linfa vitale, gli spazi, le opportunità democratiche a tutti coloro che hanno creduto in una politica pulita. Hanno deprivato le donne, del 5% dei contributi che dovrebbero permettere loro un po’ di promozione femminile della politica, per lo stato di povertà in cui, in tutti i sensi versano le donne; le hanno defraudate del piccolo sollievo per evitare sempre e comunque di contare solo sulle proprie forze nonostante tutto, con risorse private: cuore, testa, gambe, e anche denaro proprio. Mentre la Costituzione dice altro. Mente la legge 157/99 sui rimborsi elettorali dice altro. Siamo afone del nostro urlo che nessuno ascolta, siamo spossate del soffio di voce con cui da tempo stiamo cercando di dire la verità. Verità che nessuno ascolta. Serve coraggio per udire, e chi è sordo non sente né l’urlo né il soffio di voce. Il sordo per scelta non ha coraggio, oppure è compromesso egli stesso e accampa scuse. La sentenza Micciché: Chi non ha nulla da nascondere non si trincera dietro la esclusiva competenza del Parlamento in tema di rimborsi elettorali. E’ ciò che invece è avvenuto in corso di causa, presso il Tribunale civile di Milano. Alla nostra richiesta relativa ai fondi per le donne (5% dei rimborsi elettorali previsti dalla legge 157/99, art. 3) che pur essendo in bilancio, non risultano essere state erogate, la presidenza Idv risponde che non abbiamo competenza per chiedere conto, né noi né il giudice ordinario. Ma la sentenza Micciché respinge tale ostacolo a far chiarezza sui conti di partito e spiega: “Va esclusa l’assoggettabilità della presente vertenza alla giurisdizione domestica del Parlamento. E con questa frase si respingono le eccezioni di Idv di carenza di giurisdizione e decadenza …”. In poche parole il magistrato di prima istanza esclude che sia solo il Parlamento a dover “spulciare” i conti di partito. E con questo anticipa la importante svolta che sta interessando la Corte dei Conti sui controlli dei fondi di partito. Nel frattempo il Collegio dei revisori dei conti della Camera con una lettera al Presidente Gianfranco Fini chiede al Parlamento interventi volti a rendere più efficaci le funzioni di verifica, attualmente solo formali. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a sua volta spinge per attuare regole di democraticità all’interno dei partiti, richiamando l’attenzione all’articolo 49. L’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Sono poche sostanziali parole in cui i nostri padri costituenti hanno racchiuso l’essenza della democrazia. Mai articolo fu così disatteso come in questi ultimi decenni. Eppure è antico il monito di costituzionalisti come Esposito, Crisafulli, Paladin. Carlo Esposito già oltre mezzo secolo fa scriveva: ” L’interpretazione razionale della disposizione [Cost. It., art. 49; ndr] vuole dunque che si riconosca l’illegittimità dei partiti retti autocraticarnente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia dei partiti,…”. Ed aggiungeva: “la solenne dichiarazione (della Costituzione italiana, ndr) che i singoli possono associarsi in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (se ha un significato e non consta di parole in libertà) implica innanzi tutto che i partiti siano organizzati in modo che i singoli cittadini associati determinino essi l’indirizzo dei partiti, attraverso cui dovrebbero concorrere in seconda istanza a determinare l’indirizzo politico dello Stato (…). I capi, i duci, i padroni dispotici di partito, visti e temuti da Esposito sono cresciuti, pasciuti e ingrossati di potere in questa orribile Seconda repubblica. Foraggiati da fondi pubblici, mentre la gente è ridotta ai minimi termini. Ed eccoli i loro cassieri in filmati e tg con le mani nella borsa del denaro. Il Consiglio d’Europa, divenuto di dominio pubblico l’uso privato di denaro pubblico, boccia i partiti per irregolarità nei bilanci. E la sensibilità istituzionale verso il problema aumenta in rapporto all’enorme disagio dei cittadini impoveriti da tasse e balzelli mentre gli unici a nuotare nell’oro sono i partiti. Da Taiwan a Berlino 18 passi di civiltà Sull’articolo 18, un punto dello statuto del lavoratori di grande civiltà, ho già scritto. Volerlo abolire è una sorta di sindrome cinese che se dovesse contagiarci ci potrebbe far amaramente pentire come la Apple si è pentita dopo i suicidi a catena. Non dobbiamo avere invidia non dei paesi meno civili. E da Taiwan a Berlino i 18 passi di civiltà in tema di diritti del lavoro sono quelli che se non portano avanti, almeno non spingono verso il basso la gente disperata. Gli articoli 49 della Costituzione e il 18 dello Stato dei Lavoratori sono due importanti punti di civiltà. Li unisco in questo combinazione fantastica perché prima di interessarsi del secondo è fondamentale mettere a fuoco il primo: L’articolo 49 e tutto l’insieme dei significati di potenza democratica inespressi e irrealizzati. Sappiamo ad oggi abbastanza sull’uso di denaro pubblico. Alcuni partiti come il Pd hanno i bilanci certificati da revisori esterni qualificati. I Radicali sono i promotori dell’antico Referendum contro il finanziamento ai partiti. Attualmente il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo rifiuta di incamerare i soldi dei rimborsi elettorali. L’Idv con Di Pietro annuncia un nuovo Referendum. Al partito dei Valori suggerirei di fare qualcosa di diverso: rifiutare i rimborsi dell’ultima trance, e dimostrare come sono stati spesi i fondi fino ad oggi. Quello che avanza restituirlo, comprese le somme del 5% che sono stati motivo di esclusione femminile dal partito. L’impoverimento delle donne è uno dei punti, e neppure il più importante della carenza di democrazia. Ma oggi di questo si parla e di questo io scrivo. Il resto è un dossier depositato agli atti. Wanda Montanelli 12 aprile 2012

Sindrome cinese

L’art. 18 per un’ astrusa lotta di classe

La stampa cercando lo scoop sollecita risposte sull’art. 18. Lo ha fatto anche Lucia Annunziata domenica 22 gennaio sul suo programma della Rai In mezz’ora. Ha reiterato la domanda, pressando e dando quasi per scontato l’intervento del governo sul punto cruciale dello Statuto in aperta discussione mediatica, ma Monti non ha dato conferme se non indirette. E’ una sua tattica verbale esprimersi per litote. Il giorno dopo invece alcuni quotidiani hanno aperto con il titolo”Monti dice no ai tabù sull’art. 18!”. LA MINORANZA RUMOROSA CHE ODIA L’ART. 18 Le statistiche stabiliscono che due lavoratori su tre sono tutelati dal famigerato articolo dei lavoratori. Ci sono interpretazioni e verità di parte anche nella lettura dei sondaggi. Ma non importa. La maggior parte degli italiani amano l’art.18. Alcuni lo odiano. Sono pochi ma fanno più chiasso dei molti. E’ una “minoranza rumorosa” che ad ogni problema che presenta l’Italia tirano fuori l’art. 18. Come se fosse una pozione magica in grado di fare miracoli e risollevarci da ogni cosa attanagli l’esistente. Sembrano essere convinti che tutti i mali del Paese scaturiscono dal fatto che “un lavoratore non può essere licenziato senza giusta causa”. Sicché se da domani ogni lavoratore potrà essere preso a calci senza giusta causa andrà a posto tutto. Abbiamo problemi di pil, delinquenza minorile, violenza alle donne, alluvioni, ambiente disastrato, ecc… Ma ciò che importa più di tutto è l’art. 18. Come se abolito quello l’Italia risorgesse! E’ un fatto di principio, ed è un vero feticcio simbolico. Ma lo è per loro. Non per i lavoratori! Lo è per chi ogni sera va a dormire e pensando all’art. 18; ogni mattina si alza con un cerchio di mal di testa ed convinto che non gli passerà se non cancellano l’articolo 18. Mentre per i lavoratori lo Statuto è una norma di garanzia e civiltà, amata quasi quanto la Costituzione, per costoro lo stesso insieme di norme civili sul lavoro diviene un totem da incubo, che si specchia nella loro turbata coscienza e non li fa appisolare la notte. E’ un’ossessione. Sognano tute di operai con macchie di grasso di automobili indossate da uomini muscolosi che invadono le piazze e manifestano scandendo “DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO”. L’incubo nasce credo da malcelati ancoraggi al loro “status” sociale, e diviene una specie di braccio di ferro da vincere ad ogni costo. E’ una lotta di classe. E’ vero lo è. Ma chi dichiara guerra non sono i lavoratori che già ai primi chiarori dell’alba hanno ben altro a cui pensare. Penso che molte di queste minoranze rumorose dovrebbero essere grate allo statuto dei lavoratori e all’art. 18. Gli permette di confermare se stessi e di campare di rendita (dal punto di vista mediatico si capisce) ritrovandosi sulle prime pagine di giornali, blog, social network e pubblicazioni più o meno dotte. Da noi ogni volta che si dibatte dell’argomento, per esempio, viene menzionato, intervistato, coinvolto immancabilmente Pietro Ichino. E’ una consonanza automatizzata, come la tombola napoletana: “Uno: l’Italia!; Cinquanta: ‘o ppane!; Diciotto: Pietro Ichino! Dovrebbe amarlo molto l’art. 18 il professor Ichino che ogni tanto rinnova la sua fama e lo riporta in agenda setting. Preferisco leggere pareri di donne come Rosy Bindi, la quale giustamente afferma che la nostra priorità è il precariato non l’art.18. Chiara Saraceno in un articolo su Repubblica del 23 gennaio scrive: “…Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo”. Susanna Camusso conferma che la vera occupazione è a tempo indeterminato, e ha ragione perché solo chi ha certezze e basi sicure investe e fa muovere l’economia. Elsa Fornero ministro del Welfare, ha ben preciso il concetto che se i salari sono bassi l’economia si ferma. Allora i due principali motivi della stagnazione sono il precariato e i salari bassi. Mi domando quante volte mangia in un giorno Jamie Dimon, il banchiere di JP Morgan Chase Bank che ha appena registrato il 50% dei profitti, e quanti caffè beve l’altro 10% della elite mondiale che come lui controlla l’83% di tutte le ricchezze. Quante volte mangiano e bevono? Tre, cinque? Quanti tubetti dentifricio usano in un mese? Quante paia di scarpe comprano in un anno, dieci, cento? E nei bar, nelle panetterie, nei taxi, nei cinema, dal ferramenta, dal fisioterapista, dal parrucchiere, dal libraio, in palestra, a scuola, in piscina, a quante volte vanno in un anno? Ammettiamo che il quoziente di media sia dieci, e che il quoziente 10 soddisfi tutti i bisogni – anche esagerati – di quel 10% che detiene l’83% della ricchezza mondiale, come si fa a non capire che quella quantità di ricchezza in poche tasche e non utilizzata per consumi, crescita, cultura, cibo, nascite, cure, divertimento del 90% della popolazione mondiale è la causa della stagnazione. Come si fa a non capire che il benessere va re-distribuito? Non c’è articolo 18 che possa fare il miracolo se la ricchezza resta in tasca ai pochi, ai quali non si può chiedere di scoppiare mangiando 90 volte al giorno al posto di chi non mangia, e nemmeno di moltiplicare la loro soggettività vivendo tutte le opportunità – che sono fattori di crescita imprenditoriale, sociale, culturale – che i precari e i poveri non vivono. EGOISMO E MALA FEDE: SINDROME CINESE Penso che ci sia una notevole dose di malafede in chi attacca i diritti dei lavoratori. La scusa più banale è che non possono esistere due categorie sociali tra i lavoratori stessi. Quelli iperprotetti (ma perché iper?) e quelli allo sbaraglio. E piuttosto di estendere la protezione a tutti, si pensa di abolire i diritti a chi ce li ha, e allargare il precariato. A questo punto mi chiedo se per sollevare i terremotati dal vivere nei container si renda necessario mandare in abitazioni precarie tutti gli altri cittadini che una casa invece ce l’hanno; o se per essere equi con chi rischia di annegare in un naufragio occorra buttare a mare tutti, anche chi una scialuppa di salvataggio l’ha trovata. Probabilmente il modello che li convince è quello cinese. Ed è grazie a queste balorde teorie del “mal comune mezzo gaudio” che hanno così proliferato in Italia aziende che non avrebbero diritto di esistere nemmeno nei paesi del terzo mondo. Ditte che si trovano nel limbo del non diritto. Vivono in Italia ma è come se fossero in un interregno senza governo. Sono cinesi soprattutto, ma anche padroncini italiani che degli stessi si avvalgono in subappalto, ed a loro è permesso tutto: lavorare 12-14 ore, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Coinvolgere bambini e vecchi nella produzione realizzata in maniera strenua e ripetitiva. Mandare i loro incassi (al netto delle tangenti ai prestasoldi che li hanno condotti in Italia) nei loro paesi d’origine. Ebbene l’economia del bel Paese non potrà mai competere con questi schiavi moderni. Per quale motivo nessuno parla di questa realtà tra i dotti professori che hanno la bacchetta magica della soluzione per la crescita? Nessuno prende in considerazione questa concorrenza sleale perpetrata dai cinesi, ma che se fossero italiani o svizzeri sarebbe lo stesso. Perché invece di farsi scudo dei precari italiani, nell’odioso tentativo di porre i lavoratori uno contro l’altro, padri contro figli, affermando che sono quelli tutelati dall’art.18 a frenare la nascita di nuovi posti di lavoro, non vanno al cuore del problema ? Mi chiedo come mai nessuno si ponga il dubbio che 54mila ditte cinesi esistenti senza regole in un paese “a parte” che potremmo chiamare Cinalia” non abbiano frenato l’economia italiana e chiuso la possibilità di nuovi posti di lavoro nelle aziende manifatturiere di borse, scarpe, divani, mobili, eccetera. Ditte che avrebbero potuto essere impulso alla crescita, con diritti, tasse pagate, e posti di lavoro veri, non lager in cui si raccolgono persone che per bisogno accettano lo condizione di schiavitù, si nascondono nei sotterranei di “terre di nessuno”, dove nessuno va a bussare, se non qualche coraggioso giornalista, come Riccardo Iacona, o Emily de Cesare che in Crash, il reportage di Raitre in onda in ore notturne ci fa sapere: “C’è un settore nell’economia mondiale che non sembra risentire della crisi globale: è la grande industria manifatturiera di provenienza cinese. Nel nostro Paese, negli ultimi 8 anni, gli imprenditori cinesi sono aumentati del 150%, superando la soglia delle 54.000 ditte, e il fatturato annuo è di circa 2 miliardi. Un modello di mercato che però troppo spesso sembra basarsi sul non rispetto delle regole: il più delle volte si lavora in capannoni alveare dove si mangia, si dorme e soprattutto si lavora clandestinamente. I cinesi sono al primo posto nel flusso di rimesse all’estero e questo un fiume di denaro è in gran parte denaro contante, che sfugge ai controlli del fisco italiano”. Il servizio dimostra che nessuno di questi imprenditori cinesi prende denaro con assegni o con carte bancomat. Non risulta nulla. Anche se si tratta di pagamenti in migliaia di euro i cinesi esigono pagamenti cash, un biglietto sull’altro. Questo denaro che va all’estero non è denaro tolto al reinvestimento e alla crescita in Italia? Perché non si fanno controlli obbligando tutti a rispettare le leggi italiane? A chi conviene avere questi modelli di efficienza schiavista? Cosa è, cosa sono? Campi di osservazione di alienazione umana? Modelli di efficienza da cui apprendere come il lavoratore schiavo è felice di stare 14 ore sulla macchina da cucire senza alzare la testa e mai distrarsi nemmeno per osservare scorrerie di sorci che attraversano il capannone in lungo e in largo?. Se è questo il modello bisogna essere chiari e convenire che la “sindrome cinese”, è anche connivenza con il loro sistema, favoreggiamento di tutti coloro che potendo farlo non intervengono, ed hanno solerzia al contrario per sviluppare teorie sulla “crescita” che affama i più poveri. Soggetti che in malafede sostengono come i lavoratori stranieri siano felici di restare in schiavitù, mentre intervistati a quattr’occhi questi nuovi oppressi sognano il “modello Italia” con turni di lavoro di otto ore, riposo del fine settimana, ferie, e diritti. Non sarebbe meglio invece di copiare il peggio imitare i virtuosi? A Davos, nel World Economic Forum, il modello nordico risulta vincente, e non solo perché vi sono territori con maggiori opportunità, ma perché l’intelligenza e l’altruismo sono spesso premianti. Eppure lì se ne pagano molte di tasse, ma nessuno si lamenta perché i soldi son ben impiegati e funziona tutto. Federico Rampini sul suo blog di La Repubblica titola “Davos, udite udite, scopre le diseguaglianze” e si chiede se la superélite globale che si riunisce come ogni anno al WEF abbia finalmente compreso che l’eccesso di “hubris” dei ricchi può provocare l’inizio della loro fine. “Sarà la miccia per l’esplosione di conflitti sociali gravi?” . Scrive Rampini che Jacob Hacker e Paul Pierson, i due scienziati della politica più discussi in questi giorni, smontano le teorie sull’inesorabilità dei due trend: globalizzazione e progresso tecnologico, ed affermano che le diseguaglianze sociali non sono affatto fatali, sono “fabbricate” dal sistema politico: “…Da una politica definita come un gioco di carte: “Il vincitore prende tutto”. L’economia e la politica del “vincitore prenditutto” sono malsane: le oligarchie esercitano un’influenza sproporzionata sui governi; “vecchie liberaldemocrazie diventano delle plutocrazie con livelli di diseguaglianza paragonabili al Ghana, al Nicaragua, al Turkmenistan”. Ecco, appunto, paragoni al sottosviluppo e alle disuguaglianze di altri territori come nella sindrome cinese che si diffonde in Italia. Speriamo che i nuovi egoismi dettati dalla paura possano chiarire bene cosa e come cambiare impegnandosi a realizzare società meno ingiuste. Al Consiglio europeo di Bruxelles del 30 gennaio Nicolas Sarkozy anticipa che ha intenzione di fare da apripista con la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. E’ la seconda azione degna di un buon capo di Stato che mette in atto. L’altra è la legge francese che punisce il negazionismo del genocidio armeno. Direi che in questo caso dimostra di sapere che la prima “fabbrica” di equità è il sistema politico. 30 gennaio 2012, Wanda Montanelli