Caratteristiche di positività, attaccamento alle tradizioni e proiezioni nel futuro. Il meglio e il buono che abbiamo. Vero come l’olio extravergine, Grato come il pane di grano duro e Profumato come il Zilath, rosso vino degli etruschi. Moderno e antico insieme come la casa di pietra mimetizzata tra i cespugli di corbezzolo, con i pannelli solari che appena si intravedono nella macchia mediterranea. Se la fortuna di essere italiani ogni tanto è dimenticata per le traversie che ci disturbano con il pessimismo dei mutui raddoppiati, la crescita ferma, gli scempi di scorie nocive seppellite in siti naturali di rara bellezza, non tutto è offuscato. Se le cattive abitudini e i pessimi esempi della casta, che ormai “casta” non è, non foss’altro per il fatto che diventa plurale ogni giorno di più dati i molteplici privilegi di potere che scaltri conduttori si sono assicurati; se tutto questo può indurci in tentazione di fare le valigie e fuggire in Patagonia, poi qualcosa ci trattiene qui, come l’ancora nel mare in bonaccia, che fa temere una prossima tempesta, ma incanta sulla quiete della distesa azzurra e induce a pensieri lievi. Pensieri che germogliano su notizie positive come quelle che ricordano l’unicità italiana dei luoghi di bellezze paesaggistiche, musei a cielo aperto, ingegno, tradizioni, filosofia del buon vivere, come quella che faceva dire a Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana, che la psicoterapia serviva a insegnare a ricchi ebrei a vivere come gli italiani. Capacità di vivere in modo semplice e salutare, da cui nasce la Dieta mediterranea, candidata a patrimonio Unesco dell’umanità. Dieta che è la sintesi storica della civiltà delle popolazioni del Mediterraneo e della forte identità agganciata a robuste radici di un ambiente naturale dalle caratteristiche inconfondibili. L’insieme di questi fattori rappresenta un patrimonio non solo di cultura della salute, ma di rivalutazione antropica del rapporto dell’uomo con il cibo. Rapporto fatto di esperienza, vita a cospetto di mare, uliveti e distese dorate di grano maturo. Cibo e salute, concretezza, misura dei valori nutrizionali, saggezza. Una vera filosofia esistenziale che abitua a rispettare e a rispettarsi nel contesto naturale generoso che ci ospita. Modus vivendi che è stato oggetto di studio del cardiologo statunitense Ancel Keys (noto durante la II guerra mondiale per la formula della cosiddetta “razione K” delle truppe militari degli States, che da lui prende il nome) vissuto per oltre 40 anni sulla costa del Cilento, a Pioppi, dove attivò un laboratorio di ricerca comparata tra vari Paesi con abitudini alimentari del tutto differenti. Ricerca da cui deriva il famoso Seven Countries Study, comparazione dei regimi alimentari per un totale di 12.000 casi, in sette paesi di tre continenti (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Olanda, Stati Uniti e Jugoslavia) che convalida i benefici sulla salute della dieta mediterranea fatta di pasta, pesce, prodotti ortofrutticoli, olio d’oliva. Saggezza alimentare fondata sulla sacralità del cibo, rispetto di se stessi, parsimonia, che abbassa notevolmente la percentuale di mortalità per cardiopatia ischemica dei popoli del bacino mediterraneo. Buona salute, quindi, studiata da Keys nel Cilento, e poi presso il laboratorio di igiene fisiologica all’università del Minnesota. Impostata sulla centralità dell’uomo e legata ai saperi della Magna Grecia ed al pensiero eleatico di Parmenide e Zenone. Frutto di un mangiare sano di piatti poveri con verdure, legumi, pasta fatta in casa. Prima che lo studioso statunitense scomparisse nel 2004 gli venne conferita la Medaglia al merito della Salute Pubblica dall’allora ministro, prof. Girolamo Sirchia, su richiesta di Alfonso Andria, Presidente della Provincia di Salerno, oggi Ministro ombra per le Politiche Agricole del PD che sostiene con Paolo Scarpa (Presidente della Commissione Agricoltura del Senato) la mozione proposta dal Senatore Paolo De Castro per ottenere il riconoscimento Unesco. Patrimonio dell’Umanità come la Grande Muraglia cinese, la piana delle Piramidi di Giza, la Torre di Londra, la grande barriera corallina, la Samba di Bahia o la laguna di Venezia.Mi viene da riflettere sul valore della conoscenza semplice. L’applicazione dell’uguaglianza e della democrazia del vivere e del nutrirsi. Disciplinata da leggi naturali, da esperienze ataviche, da scelte originate dalla contingenza. Dal giudizio superiore di valutazioni che allontanano potere e ricchezza. Una sovranità popolare che detta le leggi nutrizionali e assume la rivincita sull’opulenza smodata delle grasse libagioni castigate con attacchi di gotta e infarti del miocardio. Un insegnamento filosofale, un monito: “Règolati secondo i principi primari, altrimenti la natura si vendica”. Se tutto questo si potesse tradurre in progetto sociale si dovrebbero trasformare i principi della dieta mediterranea in norme della parsimonia nell’utilizzo delle risorse comuni e del buon vivere sociale. Partendo dalla suddivisione degli alimenti in quantità sufficiente per tutti. E da qui la distribuzione del bene pubblico, le opportunità, il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’ambiente non inquinato. L’eredità da lasciare ai nostri discendenti così come l’abbiamo ottenuta. Pensate che enorme danno se i nostri antenati non ci avessero lasciato in eredità ulivi e vitigni. Se qualcuno nel passato (di pazzi ne sono vissuti molti in ogni epoca) avesse deciso di estirpare tutte le piante per l’olio o il vino. Potremmo bere Coca Cola con la spigola alla brace senza neanche soffrire della mancanza di un Vermentino di Sardegna o di un popolare Frascati. La dieta mediterranea è l’opposto dell’ingordigia dell’arraffare. Se il ciclo di metabolizzazione dei beni, la regola della fruizione dei diritti, avesse parametri simili a quelli che regolano lo scambio tra il corpo e la dieta mediterranea, potremmo pensar a un corpo-Stato che consapevolmente non spreca le risorse, le distribuisce saggiamente, non si ingozza, rifugge la superchieria e i privilegi, risparmia, ed è sano nella sua assoluta applicazione dei principi di democrazia. Anche perché non avrebbe scelta. In caso di errata applicazione delle regole l’intoppo del corpo democratico lo porterebbe presto a correggere l’errore. Applicando in politica i principi dell’equilibrio alimentare, ad ogni ingordo componente di una impudica casta verrebbe quanto meno la podagra come un segnale di “stile di vita indecente” che non ci si mette subito a regime porta al colpo fatale senza ritorno. L’idea vincente di queste ponderazioni conduce ad una formula moderna di partito e a un sistema esemplare di gestione pubblica realizzato attraverso la cancellazione dei metodi obsoleti, clientelari, spreconi, dittatoriali e opportunistici della politica in generale. Secondo studi recenti, tra cui quelli di Confindustria, la nostra politica è “costosa e senza progetto”. Costituire un esempio di trasformazione nell’amministrazione pubblica che si basi sul pensiero semplice, non violento, come le calme acque mediterranee o come l’assunto di Gandhi sulla non-violenza che è legge del nostro essere in un futuro al femminile. Per restituire i diritti alle persone, economici, legali, ambientali, culturali, ricreativi e sociali di appartenenza e vera cittadinanza per tutti. Un modello snello, di buone prassi e amore sociale. Con un’attenzione alla cultura e al meglio della modernità realmente utile. Un’ottica femminile della semplificazione, distante dal potere fine a se stesso, rispettosa delle risorse naturali e l’ambiente, ottimista e attiva in un costante progresso. Una gestione saggia, parsimoniosa, pragmatica, di equa divisione delle risorse e opportunità. Un farsi del bene come la dieta mediterranea, alimentazione etica. Un modello vincente. Per la gran parte dei cittadini italiani. Il copyright c’è. Servono sponsor.
Quando manca il buon senso e l’autoironia di chi da piccolo leggeva Topolino Due sere fa Antonello Piroso su La7 ha ricordato l’odissea di un uomo onesto incappato in uno dei più grandi errori giudiziari dei nostri tempi. Non ho mai creduto nemmeno per un momento che Enzo Tortora potesse essere colpevole. Nel 1983 mi trovai in una trasmissione tv che andava in onda alle ore 19,00 su Raidue, “Tv30”, dove emerse una domanda sui suoi inizi di carriera (Campanile Sera del ’59 con Renato Tagliani e Mike Bongiorno). Dissi alcune parole in difesa del presentatore che si trovava in stato di detenzione. La trasmissione si registrava e si trasmetteva in differita dopo qualche ora. Mi accorsi però che prima di trasmetterla era stata tagliata la mia frase: “Spero che Enzo Tortora venga presto liberato perché è un galantuomo, un uomo per bene”. Chiamai gli autori del programma per protestare. “Perché avete censurato la mia frase su Tortora?”. “Perché è meglio che non entriamo in questa storia – mi risposero – La Rai non si può esporre con dichiarazioni innocentiste”. “E’ una mia opinione – replicai – di cui mi assumo ogni responsabilità. Voi non c’entrate”. Non ci fu modo di convincerli, ed era inutile replicare, tanto ormai la trasmissione era andata in onda. Il clima era quello. Non si parlava di Tortora. Si attendevano le prove della sua colpevolezza. Pochi ragionavano sull’assurdità delle storie da banda Bassotti e commissario Basettoni che venivano scritte su quotidiani e settimanali. Il patto di sangue con il taglio dei polsi, l’appartenenza alla camorra, i centrini fatti ad uncinetto che qualche camorrista aveva mandato per venderli a Portobello. Cose da ridere. Non è che mi ricordo tutto, so che allibivo a quel tempo per l’assurdità della tesi accusatorie. Come ci si poteva credere? Insomma eravamo cresciuti imparando a conoscere storie, vita e miracoli dei presentatori. Mike Bongiorno, Enza Sampò, Enzo Tortora. Come potevamo credere a baggianate del tipo dello spacciatore di droga. Un uomo ricco, elegante, lineare, composto, sereno. La tipologia del drogato è un’altra. Come si fa? Ce ne accorgiamo quando succede. È vero che ci sono, in tv alcuni personaggi, anche famosi, un po’ su di giri. Parlano fuori dalle righe, con un livello innaturale di concentrazione, e talvolta con performance che ci fanno venire dubbi sulla naturalezza dei comportamenti. Si vede se uno è impasticcato, o “fatto” di qualcosa. Tortora invece era un uomo sereno, per bene, rassicurante. Anche antipatico forse per alcuni, ma comunque onesto. Eppure in tanti si schierarono dalla pare dei colpevolisti. Mi irritavo quando dalla gente comune sentivo dire che se l’avevano incarcerato “qualcosa sotto sotto doveva esserci”. Ed erano estenuanti le discussioni per farli ragionare sulle contraddizioni, le illogicità delle accuse che peraltro venivano mosse da dei pentiti di bassa lega e senza riscontri oggettivi. Devo qui dire qualcosa su Vittorio Feltri. Raramente condivido le cose che scrive. Insomma siamo molto lontani come modo di pensare. Tuttavia nel 1985 apprezzai l’onestà intellettuale di questo giornalista in occasione del processo a Tortora. Era sulla Domenica del Corriere che lessi un suo articolo. Per tutti questi anni mi sono chiesta se rammentavo bene … mi pareva fosse la Domenica del Corriere. Oggi lo so di certo perché quell’articolo l’ho ritrovato (viva Internet http://www.rosanelpugno.it/rosanelpugno/node/7504) Feltri scriveva: ” […] quando il direttore del mio giornale, che è il Corriere della Sera mi notificò la decisione di inviarmi a Napoli non avevo alcuna idea se il papà di Portobello avesse più o meno combinato ciò che la Procura partenopea gli addebitava. E, francamente poco mi importava. Conoscevo Tortora, l’avevo incontrato due o tre volte: ma non si può certo affermare che la nostra fosse un amicizia. E, se devo essere sincero, mi era più antipatico che simpatico: trovavo odiosi i suoi toni affettati, certi atteggiamenti melliflui, il perbenismo ossessivo. Della vicenda giudiziaria due cose mi avevano colpito. E insospettito. Il fatto che il cosiddetto blitz, che aveva portato in galera lui e altri ottocento e passa imputati, fosse avvenuto una settimana prima delle votazioni politiche; e che gli agenti, pur di far riprendere Tortora dalle telecamere, con tanto di manette e di scorta, gli occhi smarriti e il volto pallido, lo avessero tenuto in questura sei o sette ore, in attesa della luminosità adatta alla massima resa delle immagini da mandare in onda. (…) A Napoli sono così arrivato con la certezza di avere a che fare, se non con un camorrista e uno spacciatore di droga, almeno con un uomo che ignorava la coerenza. E ho cominciato a esaminare le carte processuali con diffidenza. Ma benché non trascurassi neanche una virgola della intricata storia, non riuscivo a capire quali fossero concretamente gli elementi contro di lui: c’erano le dichiarazioni dei pentiti, d’accordo, ma nulla di più. (…). Molti dicono che bisogna attendere la sentenza completa per criticare il tribunale. Ma che cosa può esserci scritto nel verdetto più di quanto si è udito in aula? Semmai è da respingere una legge, e una prassi, che legittima condanne senza prove; una legge che dà a un Panico o a un Melluso licenza di scegliersi una vittima e di stritolarla, sostituendosi, non solo al giudice, ma addirittura al boia. (…). La corporazione voleva a larga maggioranza la condanna di Tortora, neanche si trattasse di una conquista per la categoria. Ma perché tanto accanimento? Ho avuto l’impressione di uno scoppio di irrazionalità, di una specie di tifo cieco analogo a quello degli stadi, alimentato, per giunta, dall’antipatia dell’imputato e dal suo modo ora goffo ora insolente, di difendersi. Un collega lo odiava perché con la Tv aveva strappato un facile successo, e scordava che, se il successo fosse facile, l’avrebbe avuto anche lui. Ha inciso anche la sua popolarità: troppa per essere perdonata da chi non ne ha affatto. Ed ora che il presentatore era a terra, il piacere di sferrargli delle pedate era voluttuoso. Durante la lettura della sentenza ho visto cose turpi. Il nome di Tortora tardava a essere pronunciato. Che fra i colpevoli non ci sia? I giornalisti si interrogavano con lo sguardo, increduli, delusi, amareggiati. Parecchi avevano scommesso sulla condanna, avevano investito articoli ed articoli e temevano di essere sconfessati. Uno si volta e, allargando le braccia mi sussurra: vedrai che l’hanno assolto, mi toccherà andare in giro coi baffi finti. Ma la sua disperazione, e non solo la sua, è durata poco: “Tortora Enzo… dieci anni di reclusione e 50 milioni di multa” ha detto il presidente Sansone. Qualcuno ha stretto i pugni dalla felicità, altri hanno sorriso, sia pure con moderazione, dato il momento. Era come se la loro squadra avesse segnato in trasferta. E alla sera, ho saputo, hanno brindato: alla faccia di Tortora”. Non dovrà mai più ripetersi l’accanimento come quello consumato contro Enzo Tortora. Le sue figlie non hanno avuto ancora oggi né giustizia, né risarcimenti. Rispetto la magistratura, ma come in tutte le professioni credo che chi sbaglia debba pagare. Almeno dimostrare che l’errore è avvenuto in buona fede. La vicenda di Tortora è assurda. Il tempo passa e tanti particolari si dimenticano, poi per fortuna qualcuno pensa a riproporre la storia al grande pubblico ed ai molti giovani ignari di cosa è accaduto. “L’uomo muore di crepacuore” è la frase scritta da Giorgio Bocca per commentare la morte di Enzo Tortora avvenuta il 20 maggio 1998. L’ha riletta Antonello Piroso, particolarmente coinvolto e commosso nel suo monologo. Ha citato il libro “Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora”, di Vittorio Pezzuto. Lo leggerò per non dimenticare il calvario di un uomo per bene. Può capitare ad ognuno di noi quello che gli è accaduto se manca il buon senso e… Mickey-Mouse o no, la distinzione delle chiacchiere dai fatti. 3 settembre 2007 Wanda Montanelli http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=omnibus&video=16317