Non è un caso che una dopo l’altra siano uccise donne per i motivi più disparati, come non è una novità che le modalità di divulgare le notizie su tali crimini incidano profondamente sulla psicologia di soggetti borderline e persone orientate a considerare se stessi vittime di decisioni e atteggiamenti altrui (la fidanzata, la madre, la compagna). Restanoi mperterriti i giornalisti che scelgono di pubblicare titoli “giustificanti” il crimine con frasi del tipo “Padre violento uccide il figliolo per vendetta. Era lei che lo voleva lasciare” .
Un altro fattore da considerare tra le modalità di comunicare e gestire i delitti contro le donne, è la vittimizzazione secondaria ovvero quelle situazioni in cui le donne diventano vittime una seconda volta: nei tribunali, nei percorsi legali e sanitari, nella rappresentazione dei media, nel contesto sociale, nel giudizio delle scelte di vita.
Da decenni esistono pubblicazioni, simposi, testi sull’Effetto Werther, a partire da quelle del sociologo David Phillips che nel 1974 ne coniò il termine che identificava l’effetto imitativo della condotta suicida, per giungere a tutti gli altri, da Mastronardi a Waddell, da Bailey ad Hartmann. Allora non appaia pletorico puntare ancora il dito sull’informazione malata, che alimenta se stessa, continuamente, con quei reati di cui si ritrova complice, se non concausa. Per quel redditizio – in termini di audience – e purtroppo morboso stare intorno all’orrido, alla violenza, per spiegare e parlare e spiare, incoraggiando l’emulazione del crimine, poiché, citando Giorgio Nardone e Paul Watzlawick, con questa modalità comunicativa si contribuisce a reiterare i crimini, oltre ad favorire l’imitazione del suicidio “…tale effetto funziona anche per azioni diverse come atti di violenza o, al contrario, atti eroici. Il pre-requisito è che siano pubblicizzati e che il ricevente sia una persona simile, o si senta tale, al protagonista dell’episodio narrato”.
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