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Sindrome cinese

L’art. 18 per un’ astrusa lotta di classe

La stampa cercando lo scoop sollecita risposte sull’art. 18. Lo ha fatto anche Lucia Annunziata domenica 22 gennaio sul suo programma della Rai In mezz’ora. Ha reiterato la domanda, pressando e dando quasi per scontato l’intervento del governo sul punto cruciale dello Statuto in aperta discussione mediatica, ma Monti non ha dato conferme se non indirette. E’ una sua tattica verbale esprimersi per litote. Il giorno dopo invece alcuni quotidiani hanno aperto con il titolo”Monti dice no ai tabù sull’art. 18!”. LA MINORANZA RUMOROSA CHE ODIA L’ART. 18 Le statistiche stabiliscono che due lavoratori su tre sono tutelati dal famigerato articolo dei lavoratori. Ci sono interpretazioni e verità di parte anche nella lettura dei sondaggi. Ma non importa. La maggior parte degli italiani amano l’art.18. Alcuni lo odiano. Sono pochi ma fanno più chiasso dei molti. E’ una “minoranza rumorosa” che ad ogni problema che presenta l’Italia tirano fuori l’art. 18. Come se fosse una pozione magica in grado di fare miracoli e risollevarci da ogni cosa attanagli l’esistente. Sembrano essere convinti che tutti i mali del Paese scaturiscono dal fatto che “un lavoratore non può essere licenziato senza giusta causa”. Sicché se da domani ogni lavoratore potrà essere preso a calci senza giusta causa andrà a posto tutto. Abbiamo problemi di pil, delinquenza minorile, violenza alle donne, alluvioni, ambiente disastrato, ecc… Ma ciò che importa più di tutto è l’art. 18. Come se abolito quello l’Italia risorgesse! E’ un fatto di principio, ed è un vero feticcio simbolico. Ma lo è per loro. Non per i lavoratori! Lo è per chi ogni sera va a dormire e pensando all’art. 18; ogni mattina si alza con un cerchio di mal di testa ed convinto che non gli passerà se non cancellano l’articolo 18. Mentre per i lavoratori lo Statuto è una norma di garanzia e civiltà, amata quasi quanto la Costituzione, per costoro lo stesso insieme di norme civili sul lavoro diviene un totem da incubo, che si specchia nella loro turbata coscienza e non li fa appisolare la notte. E’ un’ossessione. Sognano tute di operai con macchie di grasso di automobili indossate da uomini muscolosi che invadono le piazze e manifestano scandendo “DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO”. L’incubo nasce credo da malcelati ancoraggi al loro “status” sociale, e diviene una specie di braccio di ferro da vincere ad ogni costo. E’ una lotta di classe. E’ vero lo è. Ma chi dichiara guerra non sono i lavoratori che già ai primi chiarori dell’alba hanno ben altro a cui pensare. Penso che molte di queste minoranze rumorose dovrebbero essere grate allo statuto dei lavoratori e all’art. 18. Gli permette di confermare se stessi e di campare di rendita (dal punto di vista mediatico si capisce) ritrovandosi sulle prime pagine di giornali, blog, social network e pubblicazioni più o meno dotte. Da noi ogni volta che si dibatte dell’argomento, per esempio, viene menzionato, intervistato, coinvolto immancabilmente Pietro Ichino. E’ una consonanza automatizzata, come la tombola napoletana: “Uno: l’Italia!; Cinquanta: ‘o ppane!; Diciotto: Pietro Ichino! Dovrebbe amarlo molto l’art. 18 il professor Ichino che ogni tanto rinnova la sua fama e lo riporta in agenda setting. Preferisco leggere pareri di donne come Rosy Bindi, la quale giustamente afferma che la nostra priorità è il precariato non l’art.18. Chiara Saraceno in un articolo su Repubblica del 23 gennaio scrive: “…Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo”. Susanna Camusso conferma che la vera occupazione è a tempo indeterminato, e ha ragione perché solo chi ha certezze e basi sicure investe e fa muovere l’economia. Elsa Fornero ministro del Welfare, ha ben preciso il concetto che se i salari sono bassi l’economia si ferma. Allora i due principali motivi della stagnazione sono il precariato e i salari bassi. Mi domando quante volte mangia in un giorno Jamie Dimon, il banchiere di JP Morgan Chase Bank che ha appena registrato il 50% dei profitti, e quanti caffè beve l’altro 10% della elite mondiale che come lui controlla l’83% di tutte le ricchezze. Quante volte mangiano e bevono? Tre, cinque? Quanti tubetti dentifricio usano in un mese? Quante paia di scarpe comprano in un anno, dieci, cento? E nei bar, nelle panetterie, nei taxi, nei cinema, dal ferramenta, dal fisioterapista, dal parrucchiere, dal libraio, in palestra, a scuola, in piscina, a quante volte vanno in un anno? Ammettiamo che il quoziente di media sia dieci, e che il quoziente 10 soddisfi tutti i bisogni – anche esagerati – di quel 10% che detiene l’83% della ricchezza mondiale, come si fa a non capire che quella quantità di ricchezza in poche tasche e non utilizzata per consumi, crescita, cultura, cibo, nascite, cure, divertimento del 90% della popolazione mondiale è la causa della stagnazione. Come si fa a non capire che il benessere va re-distribuito? Non c’è articolo 18 che possa fare il miracolo se la ricchezza resta in tasca ai pochi, ai quali non si può chiedere di scoppiare mangiando 90 volte al giorno al posto di chi non mangia, e nemmeno di moltiplicare la loro soggettività vivendo tutte le opportunità – che sono fattori di crescita imprenditoriale, sociale, culturale – che i precari e i poveri non vivono. EGOISMO E MALA FEDE: SINDROME CINESE Penso che ci sia una notevole dose di malafede in chi attacca i diritti dei lavoratori. La scusa più banale è che non possono esistere due categorie sociali tra i lavoratori stessi. Quelli iperprotetti (ma perché iper?) e quelli allo sbaraglio. E piuttosto di estendere la protezione a tutti, si pensa di abolire i diritti a chi ce li ha, e allargare il precariato. A questo punto mi chiedo se per sollevare i terremotati dal vivere nei container si renda necessario mandare in abitazioni precarie tutti gli altri cittadini che una casa invece ce l’hanno; o se per essere equi con chi rischia di annegare in un naufragio occorra buttare a mare tutti, anche chi una scialuppa di salvataggio l’ha trovata. Probabilmente il modello che li convince è quello cinese. Ed è grazie a queste balorde teorie del “mal comune mezzo gaudio” che hanno così proliferato in Italia aziende che non avrebbero diritto di esistere nemmeno nei paesi del terzo mondo. Ditte che si trovano nel limbo del non diritto. Vivono in Italia ma è come se fossero in un interregno senza governo. Sono cinesi soprattutto, ma anche padroncini italiani che degli stessi si avvalgono in subappalto, ed a loro è permesso tutto: lavorare 12-14 ore, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Coinvolgere bambini e vecchi nella produzione realizzata in maniera strenua e ripetitiva. Mandare i loro incassi (al netto delle tangenti ai prestasoldi che li hanno condotti in Italia) nei loro paesi d’origine. Ebbene l’economia del bel Paese non potrà mai competere con questi schiavi moderni. Per quale motivo nessuno parla di questa realtà tra i dotti professori che hanno la bacchetta magica della soluzione per la crescita? Nessuno prende in considerazione questa concorrenza sleale perpetrata dai cinesi, ma che se fossero italiani o svizzeri sarebbe lo stesso. Perché invece di farsi scudo dei precari italiani, nell’odioso tentativo di porre i lavoratori uno contro l’altro, padri contro figli, affermando che sono quelli tutelati dall’art.18 a frenare la nascita di nuovi posti di lavoro, non vanno al cuore del problema ? Mi chiedo come mai nessuno si ponga il dubbio che 54mila ditte cinesi esistenti senza regole in un paese “a parte” che potremmo chiamare Cinalia” non abbiano frenato l’economia italiana e chiuso la possibilità di nuovi posti di lavoro nelle aziende manifatturiere di borse, scarpe, divani, mobili, eccetera. Ditte che avrebbero potuto essere impulso alla crescita, con diritti, tasse pagate, e posti di lavoro veri, non lager in cui si raccolgono persone che per bisogno accettano lo condizione di schiavitù, si nascondono nei sotterranei di “terre di nessuno”, dove nessuno va a bussare, se non qualche coraggioso giornalista, come Riccardo Iacona, o Emily de Cesare che in Crash, il reportage di Raitre in onda in ore notturne ci fa sapere: “C’è un settore nell’economia mondiale che non sembra risentire della crisi globale: è la grande industria manifatturiera di provenienza cinese. Nel nostro Paese, negli ultimi 8 anni, gli imprenditori cinesi sono aumentati del 150%, superando la soglia delle 54.000 ditte, e il fatturato annuo è di circa 2 miliardi. Un modello di mercato che però troppo spesso sembra basarsi sul non rispetto delle regole: il più delle volte si lavora in capannoni alveare dove si mangia, si dorme e soprattutto si lavora clandestinamente. I cinesi sono al primo posto nel flusso di rimesse all’estero e questo un fiume di denaro è in gran parte denaro contante, che sfugge ai controlli del fisco italiano”. Il servizio dimostra che nessuno di questi imprenditori cinesi prende denaro con assegni o con carte bancomat. Non risulta nulla. Anche se si tratta di pagamenti in migliaia di euro i cinesi esigono pagamenti cash, un biglietto sull’altro. Questo denaro che va all’estero non è denaro tolto al reinvestimento e alla crescita in Italia? Perché non si fanno controlli obbligando tutti a rispettare le leggi italiane? A chi conviene avere questi modelli di efficienza schiavista? Cosa è, cosa sono? Campi di osservazione di alienazione umana? Modelli di efficienza da cui apprendere come il lavoratore schiavo è felice di stare 14 ore sulla macchina da cucire senza alzare la testa e mai distrarsi nemmeno per osservare scorrerie di sorci che attraversano il capannone in lungo e in largo?. Se è questo il modello bisogna essere chiari e convenire che la “sindrome cinese”, è anche connivenza con il loro sistema, favoreggiamento di tutti coloro che potendo farlo non intervengono, ed hanno solerzia al contrario per sviluppare teorie sulla “crescita” che affama i più poveri. Soggetti che in malafede sostengono come i lavoratori stranieri siano felici di restare in schiavitù, mentre intervistati a quattr’occhi questi nuovi oppressi sognano il “modello Italia” con turni di lavoro di otto ore, riposo del fine settimana, ferie, e diritti. Non sarebbe meglio invece di copiare il peggio imitare i virtuosi? A Davos, nel World Economic Forum, il modello nordico risulta vincente, e non solo perché vi sono territori con maggiori opportunità, ma perché l’intelligenza e l’altruismo sono spesso premianti. Eppure lì se ne pagano molte di tasse, ma nessuno si lamenta perché i soldi son ben impiegati e funziona tutto. Federico Rampini sul suo blog di La Repubblica titola “Davos, udite udite, scopre le diseguaglianze” e si chiede se la superélite globale che si riunisce come ogni anno al WEF abbia finalmente compreso che l’eccesso di “hubris” dei ricchi può provocare l’inizio della loro fine. “Sarà la miccia per l’esplosione di conflitti sociali gravi?” . Scrive Rampini che Jacob Hacker e Paul Pierson, i due scienziati della politica più discussi in questi giorni, smontano le teorie sull’inesorabilità dei due trend: globalizzazione e progresso tecnologico, ed affermano che le diseguaglianze sociali non sono affatto fatali, sono “fabbricate” dal sistema politico: “…Da una politica definita come un gioco di carte: “Il vincitore prende tutto”. L’economia e la politica del “vincitore prenditutto” sono malsane: le oligarchie esercitano un’influenza sproporzionata sui governi; “vecchie liberaldemocrazie diventano delle plutocrazie con livelli di diseguaglianza paragonabili al Ghana, al Nicaragua, al Turkmenistan”. Ecco, appunto, paragoni al sottosviluppo e alle disuguaglianze di altri territori come nella sindrome cinese che si diffonde in Italia. Speriamo che i nuovi egoismi dettati dalla paura possano chiarire bene cosa e come cambiare impegnandosi a realizzare società meno ingiuste. Al Consiglio europeo di Bruxelles del 30 gennaio Nicolas Sarkozy anticipa che ha intenzione di fare da apripista con la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. E’ la seconda azione degna di un buon capo di Stato che mette in atto. L’altra è la legge francese che punisce il negazionismo del genocidio armeno. Direi che in questo caso dimostra di sapere che la prima “fabbrica” di equità è il sistema politico. 30 gennaio 2012, Wanda Montanelli

A BRESCIA A BRESCIA!

Concita De Gregorio, eccole le donne perché non ne fa un editoriale? Ci siamo sentite in colpa ad agosto perché si ricercavano le donne assenti, e per quelle di noi che nei dieci giorni di mare non ne volevano sentire di politica sono affiorati rimorsi tali da rendere amaro il gelato al pistacchio e fredda la frittura di calamari. Scambi di telefonate tra noi donne di varie associazioni “ma hai letto che scrive l’Unità?” Ho letto sì. – Unità 12 agosto: «Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»; – Unità 13 agosto: «La rivoluzione interrotta delle donne»; – Unità 14 agosto: « Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce», di Lidia Ravera; – Unità 17 agosto: « Benedetta Barzini: alcuni indizi sul mutismo delle donne»; – Unità 20 agosto: «Primo: rompere il silenziatore su ciò che fanno le donne» di Livia Turco; – Unità 21 agosto:«Scambio tra corpi, poteri maschili nel silenzio che pesa» di Elettra Deiana; – Unità 21 agosto: «Care donne (e uomini sani) ora va vinta l’indifferenza» Insomma ci hanno “sbomballato”. Sarà stata la penuria di notizie durante la calura estiva che ha indotto a tirar fuori dal dimenticatoio le donne, o sarà che ci si aspetta dalle donne che siano risorsa sempre e che dopo aver fatto le doppiolavoriste per tutto l’anno organizzino manifestazioni agostane per movimentare la noia dei vacanzieri in città. E dire che qualcuna ci ha creduto. “Dai organizziamo una manifestazione!” era il ritornello nella segreteria telefonica , nelle email o al telefono. Ma che organizziamo – scimunita che non sei altro – in pieno agosto? “Colmiamo il vuoto!” “Sì, quello del cervello. Facciamo da tappabuchi!” Tappabuchi altro ruolo in cui le donne sono formidabili metamorfiste. Un mestiere in più fra tanti che fa curriculum: lavoranti, mogli, madri, dattilografe di casa, amministratrici, cuoche, infermiere, amanti, sorelle, e… TAPPABUCHI! Ma che fa! Anche questa funzione va bene… Purché se ne parli diceva Oscar Wilde. In fondo val la pena di cogliere un’opportunità perché di ciò che le donne pensano o fanno se ne dice sempre troppo poco. Come? Le tv ne son piene! Direbbe qualcuno ricordando seni e glutei a volontà. Ed è lì il disastro. Pensare troppo al contenitore e nulla al contenuto. Ma un po’ cambia ultimamente il vento. Sarà perché la gente è stanca di grossolanità, sarà per la critica feroce della stampa estera. Leggo Wolfgang M. Achtner, l’autore di “Il reporter televisivo. Manuale pratico per un giornalismo credibile” che da anni ormai punta il dito contro il giornalismo e la tv nostrane. Sarà perché i tempi son maturi e la domanda è superiore all’offerta. Ci si sta rendendo conto che le cose di donne interessano. Tanto è vero che il documentario “Il Corpo delle donne” è stato visto da migliaia di persone in poco tempo dopo la sua pubblicazione. Lorella Zanardo ce lo ha raccontato durante l’incontro con la Stampa estera del 5 novembre alle 12.00 dove Concita De Gregorio (assente ingiustificata ) doveva essere con Rosy Bindi, la Zanardo e me a raccontare se le donne sono “Silenti o silenziate”. Le domande di Megan William che coordinava gli interventi tendevano a scandagliare le motivazioni sociali che rendono così singolarmente in ritardo l’effettiva cittadinanza femminile italiana. L’attacco alla tv nostrana da parte di Achtner ha trovato un temperato distinguo da parte di Rosy Bindi che ha replicato che pur essendo un prodotto discutibile il G.F. è comunque di derivazione estera. E’ vero infatti che lo abbiamo importato come tanti format di cui non dovremmo avere bisogno dati i costi della tv pubblica e i talenti di autori completamente ignorati. La differenza tra noi e gli altri paesi è che qui il GF. ce lo propinano in tutte le salse e se non vuoi proprio vedere devi fare saltapicchio tra decine di programmi che te lo ripresentano. Siccome non si riesce ingoiarlo nemmeno liquido (“manco ‘a bbrodo ne mastica!” dicono in Sicilia), diventa una fatica scansarlo perché i tg, i talk show, i programmi naturalisti, le strisce e quant’altro ti rimettono la minestra riscaldata e becera davanti agli occhi e fai fatica a riuscire a “non vederli!” Persino la Gialappas band che diverte da matti non si può più vedere perché il tranello del Grande fratello emerge come sughero nel mare anche tra le loro facezie spassose. Mi sono posta come punto fermo il non voler vedere i GF. Non l’ho mai visto, non ne conosco i personaggi né intendo conoscerli. Ebbene vorrei vincere la mia scommessa. Ma è dura! Se un decimo del tempo perso appresso al G.F o all’Isola dei (presunti) famosi (riproposta quasi con la stessa insistenza) lo si dedicasse alle idee delle donne, alle loro iniziative, anche quando come il più delle volte accade non sono “portate” dai partiti, si farebbe un livellamento verso l’alto della qualità dell’offerta di tv che, sebbene generalista, si mostra particolarmente insofferente verso il genere, quantomai ostico ai programmatori di palinsesti, “Donna pensante”. Stessa cosa si può dire della stampa, tranne qualche caso in cui si avanza timidamente il tema. Mi rivolgo a Concita Gregorio, che lamenta l’assenza delle donne, tuttavia poco o nulla scrive delle donne che sono in piazza. Invece quante cose fanno le donne. L’Udi ha da un anno iniziato il tour d’Italia da Niscemi a Brescia, per segnare di paese in paese la protesta e lo sdegno. Ci sono migliaia e migliaia di donne che in questo anno si sono spese di centro sociale, in teatro di periferia, da piazze importanti e strade buie teatro di aggressioni. Dove risulta tutto questo? In Donna-tv? Grazie Eleonora Selvi e Salima Balzerani! Ma tutti gi altri dove guardano quando le donne stanno in piazza? L’Udi, L’Onerpo, Donne in Quota, e decine di altre associazioni hanno seguito il viaggio che ha toccato ogni luogo d’Italia. Ma non vi viene la curiosità di sapere chi sono queste donne che si spendono per anni gratis, che sognando il cambiamento organizzano, scrivono, si chiamano, si autotassano, si fanno da sé i manifesti, le foto, i filmati, gli articoli sui blog, i turni massacranti dopo il lavoro. Chi sono, cosa pensano, che vogliono? Non vi incuriosisce tutto questo. Di che giornalismo vi occupate? Solo quello delle segreterie dei partiti? Ma porca miseria la gente è per strada ed esprime pareri e bisogni anche senza tessere in tasca! Concita faccia la sua parte. Si chiama “STAFFETTA DELLE DONNE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE” e il nome stesso espone la nostra forza e il nostro limite. Senza cappelli e simboli, senza caporali padroni. Donne da ogni dove, credenti e atee, di destra e di manca e di centro. Associazioni ecologiste, animaliste, femministe, femminili, evangeliche, buddiste, musulmane, ebree. Non ce ne importa un fico secco. Qualunquiste? No qualunquisti siete voi, che portate a casa un qualunque vantaggio da chi è disposto a darvene. Noi abbiamo le idee chiare su ciò che vogliamo e spesso per raggiungere i nostri obiettivi ci rimettiamo in proprio. Oggi lo scopo che ci porta in piazza è quello di dare un forte segnale di dissenso contro la violenza. Domani ci sarà altro. Ci aspettiamo un editoriale. Altrimenti il prossimo agosto non rompete i marroni e lasciateci mangiare il fritto di mare in pace. 20/11/2009 Wanda Montanelli