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49 e 18

L’ACCOPPIATA VINCENTE IN DEMOCRAZIA

Contro l’illegittimità dei partiti retti autocraticamente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia (C. Esposito 1902-64)

Per anni non succede nulla, poi come per magia i nodi vengono al pettine. Finalmente! dicono tutti. Era ora, affermo io a maggior ragione, dal momento che della questione della democrazia all’interno dei partiti ne ho fatto tema di tante iniziative, sociali, politiche e, per non lasciare nulla al caso, anche una causa civile pendente presso il tribunale di Milano. Dicono che io sia una donna coraggiosa per aver toccato un tema così delicato. Ma non posso fare altrimenti, dato che di entrare in politica non me l’ha ordinato nessuno, e come tante donne l’ho fatto perché ho creduto fino in fondo ai dettami Costituzionali. Il 51 che ci rende pari (sulla carta). Il 2 e il 3 sull’inviolabilità dei diritti e sulla dignità sociale. Il 49, oggi attualissimo dopo le gestioni dispotiche dei tiranni di partito, incluse le appropriazioni indebite dei cassieri. Hanno rubato diritti, sogni, linfa vitale Voglio precisare una cosa che forse non è ben chiara a tutti. Questi soldi asportati da tesorieri truffaldini non hanno fatto solo un danno economico ma un enorme danno di democrazia. Sono stati rubati i sogni, la linfa vitale, gli spazi, le opportunità democratiche a tutti coloro che hanno creduto in una politica pulita. Hanno deprivato le donne, del 5% dei contributi che dovrebbero permettere loro un po’ di promozione femminile della politica, per lo stato di povertà in cui, in tutti i sensi versano le donne; le hanno defraudate del piccolo sollievo per evitare sempre e comunque di contare solo sulle proprie forze nonostante tutto, con risorse private: cuore, testa, gambe, e anche denaro proprio. Mentre la Costituzione dice altro. Mente la legge 157/99 sui rimborsi elettorali dice altro. Siamo afone del nostro urlo che nessuno ascolta, siamo spossate del soffio di voce con cui da tempo stiamo cercando di dire la verità. Verità che nessuno ascolta. Serve coraggio per udire, e chi è sordo non sente né l’urlo né il soffio di voce. Il sordo per scelta non ha coraggio, oppure è compromesso egli stesso e accampa scuse. La sentenza Micciché: Chi non ha nulla da nascondere non si trincera dietro la esclusiva competenza del Parlamento in tema di rimborsi elettorali. E’ ciò che invece è avvenuto in corso di causa, presso il Tribunale civile di Milano. Alla nostra richiesta relativa ai fondi per le donne (5% dei rimborsi elettorali previsti dalla legge 157/99, art. 3) che pur essendo in bilancio, non risultano essere state erogate, la presidenza Idv risponde che non abbiamo competenza per chiedere conto, né noi né il giudice ordinario. Ma la sentenza Micciché respinge tale ostacolo a far chiarezza sui conti di partito e spiega: “Va esclusa l’assoggettabilità della presente vertenza alla giurisdizione domestica del Parlamento. E con questa frase si respingono le eccezioni di Idv di carenza di giurisdizione e decadenza …”. In poche parole il magistrato di prima istanza esclude che sia solo il Parlamento a dover “spulciare” i conti di partito. E con questo anticipa la importante svolta che sta interessando la Corte dei Conti sui controlli dei fondi di partito. Nel frattempo il Collegio dei revisori dei conti della Camera con una lettera al Presidente Gianfranco Fini chiede al Parlamento interventi volti a rendere più efficaci le funzioni di verifica, attualmente solo formali. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a sua volta spinge per attuare regole di democraticità all’interno dei partiti, richiamando l’attenzione all’articolo 49. L’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Sono poche sostanziali parole in cui i nostri padri costituenti hanno racchiuso l’essenza della democrazia. Mai articolo fu così disatteso come in questi ultimi decenni. Eppure è antico il monito di costituzionalisti come Esposito, Crisafulli, Paladin. Carlo Esposito già oltre mezzo secolo fa scriveva: ” L’interpretazione razionale della disposizione [Cost. It., art. 49; ndr] vuole dunque che si riconosca l’illegittimità dei partiti retti autocraticarnente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia dei partiti,…”. Ed aggiungeva: “la solenne dichiarazione (della Costituzione italiana, ndr) che i singoli possono associarsi in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (se ha un significato e non consta di parole in libertà) implica innanzi tutto che i partiti siano organizzati in modo che i singoli cittadini associati determinino essi l’indirizzo dei partiti, attraverso cui dovrebbero concorrere in seconda istanza a determinare l’indirizzo politico dello Stato (…). I capi, i duci, i padroni dispotici di partito, visti e temuti da Esposito sono cresciuti, pasciuti e ingrossati di potere in questa orribile Seconda repubblica. Foraggiati da fondi pubblici, mentre la gente è ridotta ai minimi termini. Ed eccoli i loro cassieri in filmati e tg con le mani nella borsa del denaro. Il Consiglio d’Europa, divenuto di dominio pubblico l’uso privato di denaro pubblico, boccia i partiti per irregolarità nei bilanci. E la sensibilità istituzionale verso il problema aumenta in rapporto all’enorme disagio dei cittadini impoveriti da tasse e balzelli mentre gli unici a nuotare nell’oro sono i partiti. Da Taiwan a Berlino 18 passi di civiltà Sull’articolo 18, un punto dello statuto del lavoratori di grande civiltà, ho già scritto. Volerlo abolire è una sorta di sindrome cinese che se dovesse contagiarci ci potrebbe far amaramente pentire come la Apple si è pentita dopo i suicidi a catena. Non dobbiamo avere invidia non dei paesi meno civili. E da Taiwan a Berlino i 18 passi di civiltà in tema di diritti del lavoro sono quelli che se non portano avanti, almeno non spingono verso il basso la gente disperata. Gli articoli 49 della Costituzione e il 18 dello Stato dei Lavoratori sono due importanti punti di civiltà. Li unisco in questo combinazione fantastica perché prima di interessarsi del secondo è fondamentale mettere a fuoco il primo: L’articolo 49 e tutto l’insieme dei significati di potenza democratica inespressi e irrealizzati. Sappiamo ad oggi abbastanza sull’uso di denaro pubblico. Alcuni partiti come il Pd hanno i bilanci certificati da revisori esterni qualificati. I Radicali sono i promotori dell’antico Referendum contro il finanziamento ai partiti. Attualmente il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo rifiuta di incamerare i soldi dei rimborsi elettorali. L’Idv con Di Pietro annuncia un nuovo Referendum. Al partito dei Valori suggerirei di fare qualcosa di diverso: rifiutare i rimborsi dell’ultima trance, e dimostrare come sono stati spesi i fondi fino ad oggi. Quello che avanza restituirlo, comprese le somme del 5% che sono stati motivo di esclusione femminile dal partito. L’impoverimento delle donne è uno dei punti, e neppure il più importante della carenza di democrazia. Ma oggi di questo si parla e di questo io scrivo. Il resto è un dossier depositato agli atti. Wanda Montanelli 12 aprile 2012

OPPORTUNITA’ O RAGGIRO LEGALIZZATO?

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Il Project Finance senza controllo pubblico: boomerang a scapito dei contribuenti

di Anna Rossi

Le truffe registrate a danno delle economie degli Stati Sovrani sono i risultati di architetture finanziarie che hanno scavato nel tempo un debito pubblico occultato nella contabilità di società di diritto privato ossia il cosiddetto “project financing”. Ma di cosa si tratta esattamente? Il Project Finance (tecnica che rappresenta una sorta di “rivoluzione copernicana” nella cultura finanziaria italiana) si colloca nell’ambito di nozione di partenariato pubblico privato (PPP), una cooperazione che in Italia possiamo chiamare “autofinanziamento del progetto”. Questa tecnica di finanziamento è alternativa al tradizionale finanziamento d’impresa. Il finanziamento d’impresa ha per oggetto la valutazione dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa, e “il finanziatore” (solitamente una o più banche che valutano la richiesta d’impresa di finanziamento), eroga questo ultimo con garanzie reali o fideiussioni concesse all’impresa “oggetto del finanziamento stesso”. La finanza di progetto ha, invece, per oggetto la valutazione dell’equilibrio economico-finanziario di uno specifico progetto imprenditoriale legato ad un determinato investimento, giuridicamente ed economicamente indipendente dalle altre iniziative delle imprese che lo realizzano: il finanziatore finanzia una singola idea o progetto di investimento. L’attenzione dell’investitore nel Project Finance è focalizzata esclusivamente sulle caratteristiche dell’affare che viene prospettato e sulla sua capacità di rimborsare il finanziamento stesso. In caso di insuccesso del progetto i finanziatori possono rivalersi sui beni del progetto o sui promotori (rivalsa limitata) dello stesso, a seconda di quanto pattuito. Nella maggior parte dei paesi industrializzati (paesi ad estrazione anglosassone) la formula del Project Finance è utilizzata per la realizzazione di opere pubbliche infrastrutturali e da circa vent’anni anche l’Italia, dapprima restia per motivi culturali all’utilizzo del PF, utilizza questo strumento “utile”. Ecco che il nuovo modello di Stato meno gestore ed erogatore diretto di risorse e più regolatore si viene ad affermare in coerenza con le politiche economiche che non si realizzano più con la spesa pubblica. Fin qui sembrerebbe tutto filare liscio come l’olio. Peccato che solo una gestione efficiente e qualitativamente elevata (fase di gestione dell’opera) consente di generare i flussi di cassa necessari a rimborsare il debito e remunerare gli azionisti! Non è il caso italiano. Se da una lato le Amministrazioni Pubbliche si sollevano, in tutto o in parte, dagli oneri relativi al finanziamento di un’opera infrastrutturale dall’altra si affida al settore privato la gestione dell’opera dimenticando quasi sempre la supervisione sulla qualità del servizio/prodotto e talvolta anche la pienezza dell’utilizzazione commerciale. Quale mucca migliore da mungere di un pubblico che risponde degli “errori” del privato? Queste imprese moderne, le cosiddette post fordiste, hanno una caratteristica fondamentale: non hanno più un legame con il territorio, attivano prestiti come società di diritto privato (es. Tab Spa e Infrastrutture Spa che sono società di proprietà pubblica) e li erogano con la garanzia totale del socio pubblico. Queste società private di proprietà pubblica grazie al comma 966 sono tenute fuori dalla contabilità nazionale e solo dopo anni ed anni il debito occultato nella contabilità salta fuori. Naturalmente queste imprese sono presenti nel mercato nel momento in cui ci sono grandi opere da concretizzare e con determinate caratteristiche. Imprese virtuali che subappaltano tutto. In un paese come l’Italia di opere inutili e di danaro pubblico sprecato la conta del disastro è sotto gli occhi di tutti ma colpevole di questa razzia è la classe dirigente italiana che in un silenzio tombale ha avallato ruberie indicibili. I debiti del project financing o delle società di diritto privato di proprietà pubblica non figurano nel 120% del Pil eppure sono debito pubblico a tutti gli effetti che prima o poi emergerà esplodendo e travolgendo l’economia tutta. L’adozione della logica del PF, essendo basata su criteri dinamici, prospettici e, fondamentalmente, reddituali-finanziari, può consentire a questo “tipo di aziende” di sfuggire a forme di razionamento del credito, aumentandone di fatto le possibilità di ricorso al mercato finanziario (Wynant, 1980). L’Amministrazione Pubblica nel corso di questo ultimo ventennio è stata svuotata dei suoi migliori tecnici i quali avrebbero potuto valutare, a garanzia del pubblico e quindi dei cittadini, la ricaduta sullo sviluppo reale dell’investimento. La formula PF, correttamente applicata, avrebbe dovuto assicurare vantaggi in termini di efficienza in quanto il rispetto dei tempi di realizzazione e la corretta gestione dell’opera sono condizioni essenziali che il privato deve osservare al fine di conseguire quei flussi di cassa che pagano il debito contratto e non solo. La supplenza del privato non è stata però di stimolo per la pubblica amministrazione italiana che ha abdicato completamente al proprio ruolo istituzionale grazie anche alle molteplici e complesse disposizioni legislative e alle lentezze burocratiche. Per l’Italia la formula PF contiene elementi fisiologici d’incertezza e quindi di rischio. Per concludere: quale formula migliore per svuotare le casse di un paese ricco sia nel pubblico che nel privato se non l’indebitamento occultato ad orologeria? In questo processo di cambiamenti strutturali in cui la cultura di un paese rappresenta solo un muro da abbattere non c’è futuro per nessuno e come in tutti i big bang che si rispettano non resterà che ricominciare daccapo. Peccato! Pensate a quante energie sprecate e regalate a questi tristi signori del pianeta! Anna Rossi Docente di Business English Facoltà di Scienze Sociali – Roma – Angelicum Roma, 16 marzo 2012

Sindrome cinese

L’art. 18 per un’ astrusa lotta di classe

La stampa cercando lo scoop sollecita risposte sull’art. 18. Lo ha fatto anche Lucia Annunziata domenica 22 gennaio sul suo programma della Rai In mezz’ora. Ha reiterato la domanda, pressando e dando quasi per scontato l’intervento del governo sul punto cruciale dello Statuto in aperta discussione mediatica, ma Monti non ha dato conferme se non indirette. E’ una sua tattica verbale esprimersi per litote. Il giorno dopo invece alcuni quotidiani hanno aperto con il titolo”Monti dice no ai tabù sull’art. 18!”. LA MINORANZA RUMOROSA CHE ODIA L’ART. 18 Le statistiche stabiliscono che due lavoratori su tre sono tutelati dal famigerato articolo dei lavoratori. Ci sono interpretazioni e verità di parte anche nella lettura dei sondaggi. Ma non importa. La maggior parte degli italiani amano l’art.18. Alcuni lo odiano. Sono pochi ma fanno più chiasso dei molti. E’ una “minoranza rumorosa” che ad ogni problema che presenta l’Italia tirano fuori l’art. 18. Come se fosse una pozione magica in grado di fare miracoli e risollevarci da ogni cosa attanagli l’esistente. Sembrano essere convinti che tutti i mali del Paese scaturiscono dal fatto che “un lavoratore non può essere licenziato senza giusta causa”. Sicché se da domani ogni lavoratore potrà essere preso a calci senza giusta causa andrà a posto tutto. Abbiamo problemi di pil, delinquenza minorile, violenza alle donne, alluvioni, ambiente disastrato, ecc… Ma ciò che importa più di tutto è l’art. 18. Come se abolito quello l’Italia risorgesse! E’ un fatto di principio, ed è un vero feticcio simbolico. Ma lo è per loro. Non per i lavoratori! Lo è per chi ogni sera va a dormire e pensando all’art. 18; ogni mattina si alza con un cerchio di mal di testa ed convinto che non gli passerà se non cancellano l’articolo 18. Mentre per i lavoratori lo Statuto è una norma di garanzia e civiltà, amata quasi quanto la Costituzione, per costoro lo stesso insieme di norme civili sul lavoro diviene un totem da incubo, che si specchia nella loro turbata coscienza e non li fa appisolare la notte. E’ un’ossessione. Sognano tute di operai con macchie di grasso di automobili indossate da uomini muscolosi che invadono le piazze e manifestano scandendo “DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO, DI-CIOT-TO”. L’incubo nasce credo da malcelati ancoraggi al loro “status” sociale, e diviene una specie di braccio di ferro da vincere ad ogni costo. E’ una lotta di classe. E’ vero lo è. Ma chi dichiara guerra non sono i lavoratori che già ai primi chiarori dell’alba hanno ben altro a cui pensare. Penso che molte di queste minoranze rumorose dovrebbero essere grate allo statuto dei lavoratori e all’art. 18. Gli permette di confermare se stessi e di campare di rendita (dal punto di vista mediatico si capisce) ritrovandosi sulle prime pagine di giornali, blog, social network e pubblicazioni più o meno dotte. Da noi ogni volta che si dibatte dell’argomento, per esempio, viene menzionato, intervistato, coinvolto immancabilmente Pietro Ichino. E’ una consonanza automatizzata, come la tombola napoletana: “Uno: l’Italia!; Cinquanta: ‘o ppane!; Diciotto: Pietro Ichino! Dovrebbe amarlo molto l’art. 18 il professor Ichino che ogni tanto rinnova la sua fama e lo riporta in agenda setting. Preferisco leggere pareri di donne come Rosy Bindi, la quale giustamente afferma che la nostra priorità è il precariato non l’art.18. Chiara Saraceno in un articolo su Repubblica del 23 gennaio scrive: “…Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo”. Susanna Camusso conferma che la vera occupazione è a tempo indeterminato, e ha ragione perché solo chi ha certezze e basi sicure investe e fa muovere l’economia. Elsa Fornero ministro del Welfare, ha ben preciso il concetto che se i salari sono bassi l’economia si ferma. Allora i due principali motivi della stagnazione sono il precariato e i salari bassi. Mi domando quante volte mangia in un giorno Jamie Dimon, il banchiere di JP Morgan Chase Bank che ha appena registrato il 50% dei profitti, e quanti caffè beve l’altro 10% della elite mondiale che come lui controlla l’83% di tutte le ricchezze. Quante volte mangiano e bevono? Tre, cinque? Quanti tubetti dentifricio usano in un mese? Quante paia di scarpe comprano in un anno, dieci, cento? E nei bar, nelle panetterie, nei taxi, nei cinema, dal ferramenta, dal fisioterapista, dal parrucchiere, dal libraio, in palestra, a scuola, in piscina, a quante volte vanno in un anno? Ammettiamo che il quoziente di media sia dieci, e che il quoziente 10 soddisfi tutti i bisogni – anche esagerati – di quel 10% che detiene l’83% della ricchezza mondiale, come si fa a non capire che quella quantità di ricchezza in poche tasche e non utilizzata per consumi, crescita, cultura, cibo, nascite, cure, divertimento del 90% della popolazione mondiale è la causa della stagnazione. Come si fa a non capire che il benessere va re-distribuito? Non c’è articolo 18 che possa fare il miracolo se la ricchezza resta in tasca ai pochi, ai quali non si può chiedere di scoppiare mangiando 90 volte al giorno al posto di chi non mangia, e nemmeno di moltiplicare la loro soggettività vivendo tutte le opportunità – che sono fattori di crescita imprenditoriale, sociale, culturale – che i precari e i poveri non vivono. EGOISMO E MALA FEDE: SINDROME CINESE Penso che ci sia una notevole dose di malafede in chi attacca i diritti dei lavoratori. La scusa più banale è che non possono esistere due categorie sociali tra i lavoratori stessi. Quelli iperprotetti (ma perché iper?) e quelli allo sbaraglio. E piuttosto di estendere la protezione a tutti, si pensa di abolire i diritti a chi ce li ha, e allargare il precariato. A questo punto mi chiedo se per sollevare i terremotati dal vivere nei container si renda necessario mandare in abitazioni precarie tutti gli altri cittadini che una casa invece ce l’hanno; o se per essere equi con chi rischia di annegare in un naufragio occorra buttare a mare tutti, anche chi una scialuppa di salvataggio l’ha trovata. Probabilmente il modello che li convince è quello cinese. Ed è grazie a queste balorde teorie del “mal comune mezzo gaudio” che hanno così proliferato in Italia aziende che non avrebbero diritto di esistere nemmeno nei paesi del terzo mondo. Ditte che si trovano nel limbo del non diritto. Vivono in Italia ma è come se fossero in un interregno senza governo. Sono cinesi soprattutto, ma anche padroncini italiani che degli stessi si avvalgono in subappalto, ed a loro è permesso tutto: lavorare 12-14 ore, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Coinvolgere bambini e vecchi nella produzione realizzata in maniera strenua e ripetitiva. Mandare i loro incassi (al netto delle tangenti ai prestasoldi che li hanno condotti in Italia) nei loro paesi d’origine. Ebbene l’economia del bel Paese non potrà mai competere con questi schiavi moderni. Per quale motivo nessuno parla di questa realtà tra i dotti professori che hanno la bacchetta magica della soluzione per la crescita? Nessuno prende in considerazione questa concorrenza sleale perpetrata dai cinesi, ma che se fossero italiani o svizzeri sarebbe lo stesso. Perché invece di farsi scudo dei precari italiani, nell’odioso tentativo di porre i lavoratori uno contro l’altro, padri contro figli, affermando che sono quelli tutelati dall’art.18 a frenare la nascita di nuovi posti di lavoro, non vanno al cuore del problema ? Mi chiedo come mai nessuno si ponga il dubbio che 54mila ditte cinesi esistenti senza regole in un paese “a parte” che potremmo chiamare Cinalia” non abbiano frenato l’economia italiana e chiuso la possibilità di nuovi posti di lavoro nelle aziende manifatturiere di borse, scarpe, divani, mobili, eccetera. Ditte che avrebbero potuto essere impulso alla crescita, con diritti, tasse pagate, e posti di lavoro veri, non lager in cui si raccolgono persone che per bisogno accettano lo condizione di schiavitù, si nascondono nei sotterranei di “terre di nessuno”, dove nessuno va a bussare, se non qualche coraggioso giornalista, come Riccardo Iacona, o Emily de Cesare che in Crash, il reportage di Raitre in onda in ore notturne ci fa sapere: “C’è un settore nell’economia mondiale che non sembra risentire della crisi globale: è la grande industria manifatturiera di provenienza cinese. Nel nostro Paese, negli ultimi 8 anni, gli imprenditori cinesi sono aumentati del 150%, superando la soglia delle 54.000 ditte, e il fatturato annuo è di circa 2 miliardi. Un modello di mercato che però troppo spesso sembra basarsi sul non rispetto delle regole: il più delle volte si lavora in capannoni alveare dove si mangia, si dorme e soprattutto si lavora clandestinamente. I cinesi sono al primo posto nel flusso di rimesse all’estero e questo un fiume di denaro è in gran parte denaro contante, che sfugge ai controlli del fisco italiano”. Il servizio dimostra che nessuno di questi imprenditori cinesi prende denaro con assegni o con carte bancomat. Non risulta nulla. Anche se si tratta di pagamenti in migliaia di euro i cinesi esigono pagamenti cash, un biglietto sull’altro. Questo denaro che va all’estero non è denaro tolto al reinvestimento e alla crescita in Italia? Perché non si fanno controlli obbligando tutti a rispettare le leggi italiane? A chi conviene avere questi modelli di efficienza schiavista? Cosa è, cosa sono? Campi di osservazione di alienazione umana? Modelli di efficienza da cui apprendere come il lavoratore schiavo è felice di stare 14 ore sulla macchina da cucire senza alzare la testa e mai distrarsi nemmeno per osservare scorrerie di sorci che attraversano il capannone in lungo e in largo?. Se è questo il modello bisogna essere chiari e convenire che la “sindrome cinese”, è anche connivenza con il loro sistema, favoreggiamento di tutti coloro che potendo farlo non intervengono, ed hanno solerzia al contrario per sviluppare teorie sulla “crescita” che affama i più poveri. Soggetti che in malafede sostengono come i lavoratori stranieri siano felici di restare in schiavitù, mentre intervistati a quattr’occhi questi nuovi oppressi sognano il “modello Italia” con turni di lavoro di otto ore, riposo del fine settimana, ferie, e diritti. Non sarebbe meglio invece di copiare il peggio imitare i virtuosi? A Davos, nel World Economic Forum, il modello nordico risulta vincente, e non solo perché vi sono territori con maggiori opportunità, ma perché l’intelligenza e l’altruismo sono spesso premianti. Eppure lì se ne pagano molte di tasse, ma nessuno si lamenta perché i soldi son ben impiegati e funziona tutto. Federico Rampini sul suo blog di La Repubblica titola “Davos, udite udite, scopre le diseguaglianze” e si chiede se la superélite globale che si riunisce come ogni anno al WEF abbia finalmente compreso che l’eccesso di “hubris” dei ricchi può provocare l’inizio della loro fine. “Sarà la miccia per l’esplosione di conflitti sociali gravi?” . Scrive Rampini che Jacob Hacker e Paul Pierson, i due scienziati della politica più discussi in questi giorni, smontano le teorie sull’inesorabilità dei due trend: globalizzazione e progresso tecnologico, ed affermano che le diseguaglianze sociali non sono affatto fatali, sono “fabbricate” dal sistema politico: “…Da una politica definita come un gioco di carte: “Il vincitore prende tutto”. L’economia e la politica del “vincitore prenditutto” sono malsane: le oligarchie esercitano un’influenza sproporzionata sui governi; “vecchie liberaldemocrazie diventano delle plutocrazie con livelli di diseguaglianza paragonabili al Ghana, al Nicaragua, al Turkmenistan”. Ecco, appunto, paragoni al sottosviluppo e alle disuguaglianze di altri territori come nella sindrome cinese che si diffonde in Italia. Speriamo che i nuovi egoismi dettati dalla paura possano chiarire bene cosa e come cambiare impegnandosi a realizzare società meno ingiuste. Al Consiglio europeo di Bruxelles del 30 gennaio Nicolas Sarkozy anticipa che ha intenzione di fare da apripista con la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. E’ la seconda azione degna di un buon capo di Stato che mette in atto. L’altra è la legge francese che punisce il negazionismo del genocidio armeno. Direi che in questo caso dimostra di sapere che la prima “fabbrica” di equità è il sistema politico. 30 gennaio 2012, Wanda Montanelli

QUELL’ OTTUSA GUERRA CONTRO I PRINCIPI DEMOCRATICI

L’articolo di Daniele Biacchessi “Giù le mani dal 25 aprile” sul suo blog Italia in controluce del 18 agosto, è letto in radio, ed è sull’intenzione di spostare il 25 aprile alla domenica successiva. Per sentirlo mi perdo un po’ di rassegna stampa di Massimo Bordin. Mi dispiace perché è la migliore, ma ne vale la pena. Altroché. In 15 righe il vicecaporedattore di Radio24 esprime la sintesi: “E’ come se si chiedesse agli americani di spostare di qualche giorno l’anniversario dell’indipendenza (4 luglio), come se si chiedesse ai francesi di posticipare il giorno della presa della Bastiglia (14 luglio)”. I francesi a un’ipotesi del genere sarebbero già in piazza con il drapeau tricolore, bleu, blanc, rouge, chi in canottiera, chi in chemise Lacoste, agguerriti come il coccodrillo simbolo della Polo di Renè, a cantare “Allons enfants de la Patrie, Le jour de gloire est arrivé. Contre nous, de la tyrannie…”. E speriamo solo a cantare, ma ne dubito. Gli italiani invece, presi in contropiede dalle preoccupazioni della manovra fiscale, intorpiditi dal caldo agostano maggiormente sofferto da masse di cittadini senza vere vacanze, facendo la spola tra spiagge libere e casa d’abitazione, tra il rudere in collina della nonna e il bicamere in periferia, sono statici. Siamo tutti immobili in attesa del peggio. Ma più che altro increduli. Troppo abituati alle regole del convivere democratico, non ci rendiamo conto che zolla dopo zolla ci stanno portando via la terra da sotto i piedi. Così ci rifilano il peggio di ogni possibile soluzione. Contando sulla nostra inerzia, chi governa mette in cantiere progetti di cambiamenti istituzionali, costituzionali, sociali, che non c’entrano nulla con il problema del debito pubblico e con la manovra fiscale, ma che per una strana alchimia perversa, dovendo predisporre l’antidoto al male, pensano che sia arrivato il momento della resa dei conti e preparano la pozione avvelenata. Perché per loro il male è la democrazia, per loro il male è “La sovranità che appartiene al popolo”, per loro il male è il decoro della persona che lavora e che quindi ha diritto ad uno statuto dei lavoratori. E’ lui il soggetto: il lavoratore. Ma questi assoggettati della politica illiberale non intendono mantenere l’uomo al centro della fruizione del diritto. Lo Statuto dev’essere, secondo costoro, “dei Lavori”. Sono i lavori a preoccuparli, perché si sforzeranno di “pensare” a come rendere tali lavori sempre più proficui per chi in essi investe e sempre più miserabili per chi lavora. Sicché non ci saranno limiti a diminuire le paghe, imitando Cina e Bangladesh, e osservando gli italiani nelle loro reazioni; nell’accettazione disperata di qualsiasi cosa purché si lavori: cococo – cocopro – a tempo determinatissimo – interinale, o ancora in nero. Scrutando come con la lente al microscopio la nostra trasformazione da italiani viziati dal diritto costituzionale in ibridi dalla pelle chiara ma lo standard comportamentale indo asiatico: poveri, precari, senza futuro, ma con la testa china ed il sorriso stampato per la gratitudine di esistere comunque. Anche con le pezze al culo. Li gratificherà molto la nostra trasformazione in cinesi. Senza offesa per gli orientali della repubblica popolare ma sono certa che questi autoritari gestori del precariato italico proveranno un senso di libidine profonda nell’immaginare di trasformarci tutti in cinesi. Con la globalizzazione si pensava di elevare verso l’alto la qualità della vita dei “senza diritti”, ed è accaduto che invece ci siamo noi livellati verso il basso. Ma l’asticella è continuamente spostata verso giù, sicché la soddisfazione massima potranno provarla quando ci vedranno strisciare per terra senza midollo né spina dorsale. Reclamano il diritto di licenziare.(AGI – Roma, 17 ago: Manovra: Crosetto, giusto poter licenziare liberamente) Ma c’è già il diritto di licenziare. Da che è nata la repubblica si licenzia per comportamenti scorretti del lavoratore. Si mettono gli operai in cassa integrazione quando la fabbrica è in crisi, si manda via chi è disonesto. Ed è paradossale che lo reclamino adesso. Quando c’è la crisi. E’ come se in un naufragio con tanti annegati, invece di salvare i pochi in canotto, si buttassero a mare tutti. E’ questo che vuol dire il diritto di licenziare: buttare a mare i pochi che mantengono in piedi l’economia facendo acquisti, magari con cambiali e prestiti perché hanno il posto fisso. Tutto ciò non ha senso. Lo avrebbe se dopo una sperimentazione ventennale dello pseudo-liberismo esasperato e ignorante l’Italia fosse fiorente. Non lo è. La maggior parte degli italiani non è mai stata così male. Abbiamo rubato i sogni ai giovani, possessori quando va bene dell’ultimo modello di telefonino acquistato con la paga precaria di un mese. Uno specchietto per allodole. Per negare a se stessi e agli altri di non aver nulla, oltre al diritto di mandare cento sms al giorno (ma a chi, al Padreterno?) con l’ultrasconto in offerta speciale. Nulla. Neanche più la voglia di cercare lavoro. Per entrare nel limbo degli inoccupati o dei disoccupati. E quanto siamo bravi in Italia ad aumentare le tipologie dei “non lavori”. Si intende cambiare lo Statuto. Non tanto per fare lo statuto “dei lavori” quanto quello dei “non lavori”. Dove il soggetto principale è il denaro, e i beneficiari quella piccola percentuale di straricchi. E’ un dato statistico Banca d’Italia che il 10 % delle famiglie italiane detiene circa il 45 % della ricchezza nazionale; ed è così da dieci anni a questa parte. Durante questo tempo il 90% della popolazione italiana si è accontentata di spartirsi il restante 55 percento della ricchezza prodotta. Certi illiberali di governo non apprezzano le cose dai contorni netti: la Festa del 21 aprile, lo Statuto dei lavoratori, la Costituzione italiana. Non amano niente di tutto questo gli ottusi. Troppo bene è scritta la nostra Carta fondamentale, compresa da tutti e chiara. Non va bene. Bisogna mettervi mano e renderla più confusa e incomprensibile. Dati i risultati, dato che il Paese è fermo, chi governa dovrebbe domandarsi se è meglio concentrare la ricchezza in poche mani e bloccare tutto o scegliere di re-distribuirla per incentivare i consumi gli investimenti, la produttività. Essere non-ottusi significa cercare la spinta propulsiva che si trova in quell’unica strada del bene pubblico, del mettere le persone, donne e uomini, al centro degli interessi di chi si occupa di gestire la cosa pubblica. Eppure è facile dedurre che il successo in economia va perseguito attraverso la ricerca della felicità di più gente possibile. La felicità interna lorda, il Fil dovrebbe essere l’obiettivo di chi governa. E’ un discorso di generosità, ma anche se volete di egoismo intelligente. Wanda Montanelli, 19 agosto 2011

NON E’ VERO CHE IL MARE NON BAGNA NAPOLI

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Da Valenzi a de Magistris un salto generazionale, forse davvero ultima speranza per Napoli

E’ una brutta immagine. Il film di Nicholas Meyer mi dava meno afflizione. The Day After del 1983 Sapevo che era finto. A Napoli oggi è tutto vero, purtroppo. Chi come me ha lasciato da molto tempo Napoli per cercare altrove sbocchi alla propria esistenza, spera che un giorno qualcuno compia il miracolo e che il senso di rifiuto che ci ha allontanato possa trasformarsi in nostalgia, o invidia per chi è rimasto. Ancora così non è. Abbelliamo i nostri ricordi con aneddoti dell’infanzia, storie di generosa umanità, memorie del palcoscenico aperto a qualsiasi improvvisazione ‘a braccio’ da commedia dell’Arte che nei vicoli di Napoli si rappresenta tutti i giorni. Ci beiamo del consunto dvd di ‘Natale in casa Cupiello’ progettando di andare a comprare bellissimi pastori a San Gregorio Armeno. La strada famosa per l’arte presepiale la incrociamo da Spaccanapoli l’insieme di sette vie che solca geometricamente il centro storico. Siamo lì domenica 19 giugno, al ritorno da Ischia, anticipato appositamente per mangiare la pizza. Non una pizza qualsiasi, ma “la pizza” di Michele a Forcella. Sul traghetto con i miei amici passiamo tempo a discutere se sia il caso di andare da Brandi, l’originale inventore della pizza in omaggio alla regina Margherita di Savoia. L’orario per fortuna non ci dà scelta. Alle quattro del pomeriggio solo Michele è sicuramente aperto. Esulto in silenzio perché sono anni che tentano di dirottarmi da Brandi senza riuscirci. Il Rettifilo dopo via Marina espone cumuli di immondizia e cassonetti bruciati. Ancora qualche residuo carbonizzato spande nell’aria un odore acre e un’immagine surreale. Da piazza Garibaldi percorriamo a piedi un lungo tratto di strada osservando i palazzi tardo ottocenteschi di corso Umberto. Pochissima gente per strada nella torrida giornata pre-estiva. I negozi tutti chiusi. Bancarelle nessuna. Neanche i nigeriani con le cinture taroccate. In via Cesare Sersale scorgiamo ancora saracinesche abbassate. Michele è chiuso. Accidenti avevamo dimenticato che fa riposo la domenica.“Iatevenne add’ o Trianon. E’ fernuto l’impasto!” raccomanda il proprietario della storica pizzeria Michele quando la chilometrica fila di avventori esaurisce le scorte di pasta fermentata. Però stavolta basta voltarsi per notare anche l’altra saracinesca abbassata. Oltre Forcella, proseguiamo per la stretta via Duomo. Una donna anziana magrissima vende poche sigarette su una cassa di legno di frutta. Dei rumeni bevono birra acquistata in un minimarket arabo. Il kebab è offerto da un cartello colorato al di fuori di una stretta porta. E’ una specie di basso e ci hanno fatto una bottega araba. Un giovane con la camicia aperta e una grossa catena al collo ci osserva: “Una pizzeria aperta?” gli chiedo e lui ci manda più su alla pizzeria del Presidente, “pecché Clintòn (con l’immancabile accento sulla seconda sillaba) “primma s’accatte e cravatte ‘e Marinella e po’ se magna a pizza ‘addo Presidente”. Avanziamo nel cuore di Napoli, dietro di noi quattro giovani procedono a passo veloce. Un altro ci viene incontro con il motorino. “Non cerchiamo il pericolo?”, mi dicono gli amici. Quattro giovani ci seguono. E’ l’ipotesi di uno scippo. “No, non succede niente a Forcella. Guardali negli occhi e ci vedi il mare”. “Ma se sono con gli occhi neri”. “Non hai letto Proust” rispondo. Se a Napoli togli il mare spegni anche la luce negli occhi dei suoi abitanti. Quando mi capitò di leggere “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese, provai lo stesso senso di spegnimento dei rumori, delle voci e della musica. Come nella domenica pomeriggio davanti ai cassonetti bruciati e il Corso semideserto. A quel tempo esprimevo la mia passione politica attraverso le canzoni, e nel 1983 all’elezione del sindaco Valenzi composi il brano “Non è vero che il mare non bagna Napoli”. Maurizio Valenzi era considerato un sindaco galantuomo semplice e leale, un campione dei valori della libertà e uguaglianza. Il primo sindaco comunista, ed io salutai la sua elezione come un evento estremamente positivo. La sinistra che inseguo è un po’ a modo mio, quindi non da comunista, ma da attenta osservatrice dei mali di Napoli, mi piacque quel sindaco tunisino-livornese di cui tutti parlavano bene. “No, non è vero che il mare non bagna Napoli / che la speranza col vento non soffia più. No, non è vero che dentro son tutti morti / se tocchi il fondo qualcosa ti spinge su…” E poi da quando andavo all’asilo ogni tanto sentivo qualcuno dire nel pieno dell’ esasperazione: “Adda venì baffone!” Chi fosse baffone non era dato di sapere, perché la spiegazione più accettabile, tra tante strampalate che mi venivano dette, era che un giorno qualcuno con i baffi sarebbe arrivato a mettere le cose a posto, ed aiutare i poveracci che penano la vita. Beh, de Magistris non ha i baffi. Nemmeno è comunista. Che dire? Potrebbe avere la luce negli occhi come i ragazzi di Forcella, e come la bambina apparsa a Gilberte Swann, lungo il sentiero dei biancospini nella Recherche. Noi che vediamo il mare dove non c’è, e gli occhi del colore che ci piace immaginare, non ci rassegniamo. L‘elezione di de Magistris, con un salto generazionale, è forse l’ultima speranza di Napoli. Dovrebbe capirlo anche chi fa grezzo ostruzionismo per questioni di potere fine a se stesso. L’analisi degli interessi incrociati che auspicano il fallimento del Sindaco venuto da lontano è su tutti i giornali, da qualsiasi parte la si osservi. Pensando a costoro mi viene in mente un imbecille che un paio di anni fa buttava rifiuti e liquami nella Grotta Azzurra. Faceva karakiri. Come adesso i camorristi o gli oppositori di regime. Certe volte mi chiedo dove credono di poter andare questi guastatori quando avranno avvelenato tutto? Di contro leggo: “de Magistris per ora può avvalersi del completo sostegno della cittadinanza che, compatta, si è dichiarata solidale con il suo sindaco. Infatti, in molte zone della città sono sorti comitati autonomi di raccolta differenziata e molti disoccupati si stanno adoperando per ripulire le spiagge e il lungomare. Si sta diffondendo rapido il porta a porta, che in alcuni quartieri raggiunge una percentuale di riuscita pari al 65%. Nel futuro progettuale del Sindaco c’è la necessità di costruire un impianto di compostaggio che renda Napoli e la Campania completamente autonome e indipendenti, e libere dai rifiuti per strada”. Allora ritrovo il mio testo: “Dopo il contagio, la gente si immunizzò Lungo il letargo e grave la malattia/ ma la speranza col vento poi ritornò”. Giugno 2011, anno della Rinascita. http://www.vogliounasinistramodomio.net/contenitore/cantautori/ Wanda Montanelli