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Come nella sindrome del maiale selvatico dei gururumba gli impulsi distruttivi giustificano la brutalità percepita come l’essere ‘posseduti’ da forze esterne
Il tabù è un luogo inavvicinabile, un divieto sacrale che ci tiene al di fuori da un territorio segreto. Trovarsi a giusta distanza da zone buie dell’esistenza può essere salutare. Si è voluto però rompere il divieto per permettere agli umani di entrare dovunque anche nei peggiori sogni di brutalità e mai concepita virulenza contro i propri simili a livello cosciente. L’immagine rivelata attraverso il mezzo più comune di divulgazione del sogno (cinema e tv) ha rotto il velo sotto al quale la infinita sequela delle possibili crudeltà umane restava sconosciuta. La scuola di violenza delle immagini mostrate agli uomini a partire dall’infanzia ha avuto ospitalità nei media di pronta fruizione, nel video che come un caminetto raccoglie intorno a sé il nucleo della famiglia, oppure il telespettatore single con patatine e sandwich per cena. E’ forse ripetitivo citare il saggio di Popper e Condry sulla cattiveria di quella maestra bugiarda e inaffidabile che appioppa ai bambini scene di violenza alternate a pubblicità di giocattoli, o improbabili animali canterini. Si conferma con l’assuefazione al ‘medium’ anche una fase di “abituazione” ad un paradigma composto da modalità di sopraffazione inevitabile quanto quotidiana, senza che si spieghino i motivi della violenza. Come nella morfologia della Fiaba di Vladimir Propp dove le storie da lui studiate presentano vicende diverse ma seguono uno schema narrativo sempre uguale; e non si capisce, se non per il pedissequo conformarsi allo schema, come mai ad esempio la matrigna e le pessime sorellastre infieriscono così tanto su Cenerentola. Altro, dalla fiaba scritta e narrata, è invece la esposizione televisiva dove un giorno è iniziata la scuola di violenza. Metodologia dei vari sistemi di uccisione dell’essere umano, uomo o donna che siano, seguendo anche qui schemi uguali ma sempre più sofisticati nell’espletamento del dettaglio sanguinolento. Scuola di alta macelleria sulle infinite modalità di profanazione del corpo allo scopo di mostrare la brutalità gratuita in sempre differenti circostanze di perpetrarla. E il corpo diventa povera cosa, meno che nulla, nelle mani dell’omicida che senza conati di vomito può fare a pezzi un altro essere come lui umano. Per chi è cresciuto con i telefilm di Rin Tin Tin , e i fumetti del Grande Blek e Donald Duck, il massimo della sopportabilità può essere Psycho di Hitchcock , ancora censurabile per la fase dell’accoltellamento. Se non si riesce a guardare oltre perché dotati di sano rispetto dell’integrità del corpo è giusto che sia così. L’area tabù deve esistere. Se l’inconscio ne eleva intenzionalmente i confini manifestando sentimenti di ripulsa, di paura, o di disgusto di fronte a immagini in cui si rompe non solo l’integrità del corpo, ma anche il sentimento di rispetto che ad ogni corpo è dovuto, siamo dentro le regole morali. Se invece si resta impassibili di fronte ad dolore e alla crudeltà c’è da farsi qualche domanda. E’ inquietante restare freddi come lo è provare piacere sadico. Ma andiamo più in là e domandiamoci che tipo di emozioni provano i protagonisti di cattiverie, atti di bullismo, o azioni che non hanno nemmeno la minima motivazione per essere stati compiuti. Che facevano alle quattro di mattina ancora per strada quei ragazzi che hanno bruciato un uomo di nazionalità indiana? Il vuoto delle loro esistenze senza capo e senza coda è come un contenitore mai riempito di principi. Li immagino abbandonati a se stessi davanti al video della tv o della playstation, con l’unico compito, in lunghe ore della loro giornata, di cercare di non annoiarsi. Senza doveri precisi e “consegne” per meritarsi pane companatico e accessori. Si annoiavano i ragazzi. “Non è razzismo – hanno tenuto a spiegare gli inquirenti – ma che significa? Vuol essere per caso una giustificazione? La salvezza nel vuoto a perdere? Assurdità nell’assurdità. Peccato che nessuno abbia insegnato loro sin dall’infanzia che il modo migliore per non annoiarsi è essere utili agli altri e a se stessi. Impegnarsi. Se il giorno dopo quei malvagi avessero avuto l’obbligo di recarsi a scuola o a lavorare sarebbero andati a letto alcune ore prima senza far danni in giro. Invece hanno usato un uomo come diversivo alla loro inutile vita. Senza principi, né ideologie, né educazione alcuna. Chi non crede nella sacralità della vita umana, più semplicemente dovrebbe concepire il senso di inviolabilità del corpo. Per un sana conoscenza della chimica dei corpi, o una minima cognizione scientifica su come è l’uomo, quante cellule diverse ha, il dna che lo compone, la meraviglia matematica dell’intelligenza che lo costruisce e muove. L’indiano fatto bruciare da questi alieni nostrani cresciuti a pane e nutella consumato mentre in video si esibivano apologie di stupri e trafitture di membra è una persona unica e irripetibile e mai nessuno, fosse anche l’uomo più potente del mondo, potrà rimediare al male che gli è stato fatto. Non è stato ben spiegato ai violenti che la vita non è un supporto digitale o un film di celluloide che possa essere riavvolto. Determinate cellule epiteliali, di una persona che si chiama Sing Navte ed ha un Dna, un colore, uno status e una storia, a meno che non si faccia un clone, “non sono ripetibili”. Un doppione, un clone poi non sarebbe altro che un involucro-fotocopia privo dello stesso senso compiuto. Nessuno ha insegnato loro che la vita è spietata e che il rovesciamento di marcia delle cattive azioni non si può fare come nei videogiochi. In questo hanno fallito le più importanti agenzie educative come scuola e famiglia. Di contro è dall’istruzione di violenza della tv generalista-generalizzante che fioriscono soggetti feroci quanto poco intelligenti nell’incapacità di mediare gli input ricevuti. Va riconosciuta a tali soggetti l’appartenenza ad un ruolo sociale che è uno schema comportamentale tipico, osservabile in un contesto di sottospecie umana così esaltata in filmati di infima qualità da restare nell’immaginario. Un modello da riprodurre. Come gli schemi della fiaba che non spiegano i motivi, ma giustificano la brutalità perché appresa e assimilata quali automi piuttosto che esseri dotati di discernimento. Scegliamo però: o ammettiamo di avere segatura nella testa o ci assumiamo la responsabilità delle nostre azioni. La sociologia trova sempre una causa scatenante e giustificante. L’analisi psicologica* spiega piuttosto come in questi casi “Il modello sociale che questi soggetti vogliono dare nella rappresentazione di sé autorizza condotte altrimenti inaccettabili e sfrutta il carattere passivo normalmente attribuito alle forti emozioni aggressive, al fine di sottrarsi alla responsabilità per l’azione compiuta”. L’individuo si ‘disappropria’ così dell’azione, e lo stato emozionale vissuto come un evento oggettivo e non soggettivo, cioè una cosa che non è prodotta dalla mente ma che ‘capita’, porta a commettere nefandezze. Si costituisce perciò un’attenuante che potremmo comparare a quella dei gururumba della Nuova Guinea e al forte impulso detto “sindrome del maiale selvatico” (ahaDe idzi Be) che induce a comportarsi come suini rabbiosi e aggirarsi furibondi aggredendo gli astanti, facendo man bassa di oggetti anche di poco valore e devastando i luoghi. A questo proposito si può rilevare come sia singolare l’ipotesi che possa costituire un’attenuante, nei casi di violenza, l’uso di sostanze psicotiche, droghe o alcool quando tale uso non sia preordinato alla commissione del reato. Poiché chi va in giro sotto l’effetto di sostanze stupefacenti ha in preventivo la possibilità di gesti incontrollati, questo dovrebbe costituire semmai un’aggravante. Perché un conto è ubriacarsi o drogarsi dentro le mura della propria abitazione, un conto è farlo per poi andare per strada a espletare esercizio di violenza. E’ evidente nel secondo caso il comportamento antisociale unito al disprezzo assoluto della vita altrui. Ho scritto di violenza in senso generale. Quella che tanto imperversa in questi tempi è la violenza contro le donne. Se ne parla, si fanno convegni, manifestazioni e incontri come quelle dell’Udi che con un numero elevatissimo di donne riunite in associazioni ha messo in cantiere un anno intero di percorsi ed eventi.. La “Staffetta delle donne contro la violenza” è visibile in questi siti: http://www.udinazionale.org/; http://www.onerpo.it/tutte-le-notizie/87-udi-onerpo-e-affi-insieme-l8-marzo-per-la-staffetta-contro-la-violenza.html . La legge contro lo stalking, i comportamenti talvolta prevedibili degli stalker sono tuttavia un capitolo da conoscere capire e indagare bene. Ad un prossimo appuntamento qui sul blog ne vedremo insieme gli aspetti critici e le soluzioni anche di altri Paesi. 5 febbraio 2009, Wanda Montanelli *M. Marraffa, Ian Hacking, P.L. Newman, P. EkmanAnche le api nel loro piccolo si sono rotte… Brutto segno! Dire “piccolo” è un azzardo. Il piccolo per le api non esiste. Faccio un uso spigliato del sottotitolo, e mi pento già mentre scivolo su mezzi spiccioli di comunicazione per attenuare la gravità dell’argomento e rendere facile la lettura. Le api sono grandiose. La questione “immorale” ci lascia afflitti. Dalla Campania all’Abruzzo, dalla Toscana alla Calabria, alla Basilicata, assistiamo a nuove tangentopoli nelle nostre esasperate esistenze e ci domandiamo se c’è un legame tra le mazzette di tangentopoli vecchie e nuove e la moria di api. Il nesso è nel lasciare il mondo affidato a energumeni brutali e moralmente guasti. La sensibilità manca, l’equilibrio e il rispetto sono assenti. Persiste invece – di tali insaziabili incettatori – il procedere come pachidermi su cristalli di Boemia calpestando tutto, distruggendo e dissipando pezzi di esistenza dell’umanità per soddisfare l’egoismo delle vite arroganti che raccolgono benefici momentanei senza dare nulla al futuro di tutti. Gravemente minacciate dalle onde elettromagnetiche dei nostri cellulari le api rifiutano di rientrare negli alveari se nei paraggi vengono piazzati ripetitori o congegni elettromagnetici. L’informazione data da alcuni studiosi tedeschi dell’Università di Landau spiega che il loro sistema di navigazione è sconvolto al punto che non riescono più a trovare la strada per le arnie. Chi era a dire : “Se le api dovessero scomparire, al genere umano resterebbero cinque anni di vita?” Einstein?. Vediamo i dati. L’APAT (Agenzia Per la protezione dell’Ambiente e i servizi Tecnici) informa che nel solo 2007 il numero delle api in Italia si è dimezzato. In Europa c’è una perdita tra il 30 e il 50% , e negli Stati Uniti nel fenomeno da spopolamento detto Ccd (Colony collapse disorder) si arriva fino al 60-70%. Concorrono alla sparizione delle api l’inquinamento atmosferico, gli insetticidi, la scarsità d’acqua, i cambiamenti climatici, l’elettromagnetismo e gli ogm. I devastatori, gli scellerati che a tutto questo non hanno badato nella corsa all’accaparramento di potere e denaro sono ancora nella fase del doverci pensare e capire se è vero che bisogna correre ai ripari prima che inizi l’era disgraziata in cui una dopo l’altra le calamità siano irreparabili. All’estero come da noi non pare che ancora si sia presa coscienza del dover decidersi – e di corsa – di cambiare registro. In Italia, nei programmi dei due poli non si vede un progetto di moralizzazione di ambiente e politica. E’ altro quello di cui sembrano preoccuparsi i leader dei partiti da destra a manca. Dichiarazioni e chiacchiere sul potere, giochi di correnti, esame sulla questione morale vista come possibilità di trovare un capro espiatorio e andare avanti alla stessa maniera. E mentre discutono la nave va a picco come sul Titanic nell’ultima suonata dell’orchestra. Il segnale è brutto. Le api sparite sono un punto di quasi non ritorno e il mondo naturale ridotto così male si arrenderà prima o poi all’autodistruzione in cui ci stiamo accanendo. Cosa può farci tornare la speranza se non un vero cambiamento? Una trasformazione da imporre come dovere improcrastinabile a soggetti nuovi, che si attivino a comporre gli scomposti, disintossicare i contaminati, sanare intere aree malsane. Sistemi e progetti che agiscano come i minuscoli sensori (nanonasi) trovati dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit), e descritti sulla rivista Nature Nanotechnology. Sono nanotubi di carbonio che una volta entrati nella cellula vivente avvolgono il Dna e si legano ad agenti che danneggiano il materiale genetico. Cambiano il colore della luce emessa dalla tossina presente nella cellula e assicurano che i farmaci stiano combattendo il tumore distruggendo il dna malvagio. La loro funzione è di “segnalazione” visiva dell’elemento nocivo e di “riparazione”. Affidandosi alla scienza e sapendo esattamente che cosa l’intelligenza umana può dare o togliere ci si libera da chi nuoce? Certamente sì se la scienza è applicata con metodo e appresa nelle prerogative di ogni campo influente nell’esistenza umana, tra cui la “scienza politica” vista come premessa ai piani decisionali dei programmi governativi. Ma al metodo scientifico di trasformazione o riparazione del mondo va sommato il sistema delle conoscenze, fattori culturali che devono precorrere le decisioni e dare buoni livelli di informazione in corso d’opera. Ciò a dire che le decisioni che incidono nella vita di ognuno non devono cadere dall’alto, né passare lontane e sconosciute. La Comunicazione strettamente connessa a risultati di consenso è ormai presente nelle progettualità della politica, dell’economia, e dell’imprenditoria, fino al punto di accettare ormai di avere ragione o torto a seconda di come l’informazione è presentata al pubblico. Ben sa di questa importanza il giornalista che ha lanciato le sue scarpe al Presidente Bush e per farlo ha cercato il momento il cui, per rischiando la sua incolumità personale, sapeva che avrebbe avuto ragione del suo gesto. Perché il mondo lo guardava. Il balzo del Presidente per evitare le scarpe è considerata un’eccellente performance da cowboy e George W. Bush ironizzando ha affermato di aver visto solo “un bel paio di 44”. Ha detto poi ai giornalisti – spostandosi sull'”Airforce one”da Bagdad a Kabul per andare dal presidente Hamid Karzai – di non aver capito nulla di quel che urlava lo scatenato Muntazer al Zaiti. Il giornalista di Al Baghdadia (tv satellitare di opposizione del Cairo) ha oggi un braccio rotto, le costole fratturate, e lesioni a un occhio. Il fratello Dourgham ha dichiarato che Muntazer è rinchiuso in una cella di massima sicurezza all’interno della cosiddetta Zona Verde, il complesso super-fortificato del quartier generale della coalizione multinazionale guidata dagli Usa e dal governo iracheno. Il reporter sciita è però diventato un eroe non solo degli iracheni, ma di tutto il mondo arabo. In Libia la figlia di Gheddafi gli ha promesso un premio e i giornalisti tunisini hanno chiesto la sua immediata liberazione. Ma torniamo in Italia e guardiamo a noi. La politica appassiona di meno. Gli astenuti aumentano e la gente ormai non distingue tra destra e sinistra sopraffatta dalla nausea di queste nuove ruberie: Il petrolio lucano con danni ai cittadini e all’ambiente, gli appalti nel comune di Napoli, gli arresti di Pescara. E la punta dell’ Iceberg che emerge lascia intuire che cosa c’è sott’acqua di enormemente corrotto e diffuso. Che fare? Dove trovare pulizia morale e sana politica? Una domanda emerge naturale. Quante donne sono implicate in questa corruzione? Tra i nomi di assessori indagati, amministratori con le mani in pasta, o capibastone infiltrati nelle fila dei partiti, di donne non se ne vede l’ombra. Bella scoperta si potrebbe obiettare. Non avendo il potere – le donne – non possono rubare. Eppure qualche donna in posti strategici c’é. Non affiora mai il nome di una donna nelle storie di tangenti e corruzione. Né nella prima, né in quest’ultima tangentopoli. Che pensare? Ha ragione Andrew Samuels? Lo spirito di empatia delle donne salverà il mondo? O invece il Potere sarà sempre nei pugni chiusi di uomini accentratori? “Difficile non vederlo come una creazione dell’élite maschile, che trova il massimo piacere nel gestirlo e soprattutto nell’usurparlo..” scrive Mino Vianello – riguardo al potere – sul libro elaborato con Elena Caramazza “Genere Spazio Potere, Verso una società post-maschilista”. Quando avremo la forza e la volontà di cacciare i corrotti a pedate? Non scarpe, non bombe, non tranelli. Ma come i nanonasi indicatori di cellule dovremmo entrare nei nuclei del sistema politico, istituzionale, economico e “lanciare segnali di allarme” per mandare via le unità nocive del sistema sociale corrotto. Il tabù è duro da vincere. La partecipazione delle donne alla politica è vista come un’anomalia da combattere. Questione di paura? Convinzione che certi giochi di profitto con noi non funzionano? Complesso di colpa? Cosa? Cosa è che fa ergere mura altissime contro le donne? Non solo dal mondo del potere politico. Non soltanto. Il complesso meccanismo della comunicazione – che avrebbe una missione di partecipazione sociale da svolgere – ha rinunciato alla funzione di grimaldello delle casseforti in cui è chiuso il potere fine a se stesso. Quasi fosse un tabù non se ne parla, anche quando argomenti sul tappeto ce se sarebbero molti per affrontare il problema dal punto di vista politico, sociale, morale, antropologico. L’occasione più volte offerta da una causa civile in corso (unica nel suo genere) che si appella al giudice per discriminazione femminile supportata da centinaia di documenti, 9 tomi e 170 testimoni – tra cui diversi parlamentari indicati come persone a conoscenza dei fatti – non viene accolta e indagata. Quasi vi fosse un divieto tacito o un freno culturale non viene analizzato dai nessuno dei Talk-show o programmi di analisi politica. Si potrebbe parlare dell’annoso problema dei rimborsi elettorali, che – documenti alla mano – non tornano nella quadratura del bilancio delle azioni positive per promuovere la partecipazione attiva delle donne alla politica. Si potrebbero approfondire questo ed altri aspetti. Ma nessuno si impegna. Questione di paura di toccare un argomento tabù? Chi ha paura di che cosa? Di chi? Vogliamo essere generosi e credere si tratti di un fattore culturale… Però se anche il Dalai Lama ha superato il divieto sacrale nei confronti delle donne cosa si attende? Che un grande fratello dia il beneplacito? Il Dalai Lama dice – in risposta a una domanda fatta da Vanity Fair – perché no? “Se la forma femminile sarà più utile, il Dalai Lama sarà donna”. Pourquoi pas? dicono i francesi per dire sì. Il XIV Dalai Lama, l’Oceano di Saggezza, ha capito quale è l’aria che si respirerà nel futuro è ha detto Perché no? L’eremita delle montagne innevate del Tibet non ha chiuso fuori le donne. Dichiara che la reincarnazione femminile è la più alta perché in questo mondo di orrori e prevaricazioni, potrebbe essere più utile che parole di tolleranza e di pace, sgorgassero dalla bocca di una donna. Si avverte il desiderio di rinascita spirituale, di affrancamento dal un rozzo materialismo attraverso una rivoluzione risoluta e dolce. Ferma e consapevole di dover dire tanti no e somministrare la medicina amara della cura radicale. Ma perché avvenga i mezzi di comunicazione di massa devono incominciare a fare con convinzione la parte loro. Solo pochi fino ad oggi hanno dato ascolto alle lotte contro la discriminazione agite anche attraverso lo sciopero della fame, oltre che con la chiamata in giudizio di Antonio Di Pietro. Ringraziamo tutti – a partire dalla stampa estera e spagnola in special modo – le agenzie e i quotidiani che si fa presto a trovare perché sono in questo blog. Ringraziamo tutti i blog e siti che ci hanno dato spazio e che digitando su Google il nome di chi scrive si leggono ancora, tranne quelli censurati dalla presidenza del partito in questione. Segnaliamo uno spiraglio di intelligenza politica. Di due giorni fa l’articolo di Liberazione scritto da Antonella Marrone “DISCRIMINARE LE DONNE E’ UNA QUESTIONE MORALE O NO?” dove, cogliendo un lancio di agenzia Agi, si suggerisce di mettere in primo piano la “Questione femminile” dato che la immoralità diffusa non porta nomi di donne. Vogliamo parlarne tutti insieme appassionatamente? Io non ho paura. 21 dicembre 2008 Wanda Montanelli
Caratteristiche di positività, attaccamento alle tradizioni e proiezioni nel futuro. Il meglio e il buono che abbiamo. Vero come l’olio extravergine, Grato come il pane di grano duro e Profumato come il Zilath, rosso vino degli etruschi. Moderno e antico insieme come la casa di pietra mimetizzata tra i cespugli di corbezzolo, con i pannelli solari che appena si intravedono nella macchia mediterranea. Se la fortuna di essere italiani ogni tanto è dimenticata per le traversie che ci disturbano con il pessimismo dei mutui raddoppiati, la crescita ferma, gli scempi di scorie nocive seppellite in siti naturali di rara bellezza, non tutto è offuscato. Se le cattive abitudini e i pessimi esempi della casta, che ormai “casta” non è, non foss’altro per il fatto che diventa plurale ogni giorno di più dati i molteplici privilegi di potere che scaltri conduttori si sono assicurati; se tutto questo può indurci in tentazione di fare le valigie e fuggire in Patagonia, poi qualcosa ci trattiene qui, come l’ancora nel mare in bonaccia, che fa temere una prossima tempesta, ma incanta sulla quiete della distesa azzurra e induce a pensieri lievi. Pensieri che germogliano su notizie positive come quelle che ricordano l’unicità italiana dei luoghi di bellezze paesaggistiche, musei a cielo aperto, ingegno, tradizioni, filosofia del buon vivere, come quella che faceva dire a Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana, che la psicoterapia serviva a insegnare a ricchi ebrei a vivere come gli italiani. Capacità di vivere in modo semplice e salutare, da cui nasce la Dieta mediterranea, candidata a patrimonio Unesco dell’umanità. Dieta che è la sintesi storica della civiltà delle popolazioni del Mediterraneo e della forte identità agganciata a robuste radici di un ambiente naturale dalle caratteristiche inconfondibili. L’insieme di questi fattori rappresenta un patrimonio non solo di cultura della salute, ma di rivalutazione antropica del rapporto dell’uomo con il cibo. Rapporto fatto di esperienza, vita a cospetto di mare, uliveti e distese dorate di grano maturo. Cibo e salute, concretezza, misura dei valori nutrizionali, saggezza. Una vera filosofia esistenziale che abitua a rispettare e a rispettarsi nel contesto naturale generoso che ci ospita. Modus vivendi che è stato oggetto di studio del cardiologo statunitense Ancel Keys (noto durante la II guerra mondiale per la formula della cosiddetta “razione K” delle truppe militari degli States, che da lui prende il nome) vissuto per oltre 40 anni sulla costa del Cilento, a Pioppi, dove attivò un laboratorio di ricerca comparata tra vari Paesi con abitudini alimentari del tutto differenti. Ricerca da cui deriva il famoso Seven Countries Study, comparazione dei regimi alimentari per un totale di 12.000 casi, in sette paesi di tre continenti (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Olanda, Stati Uniti e Jugoslavia) che convalida i benefici sulla salute della dieta mediterranea fatta di pasta, pesce, prodotti ortofrutticoli, olio d’oliva. Saggezza alimentare fondata sulla sacralità del cibo, rispetto di se stessi, parsimonia, che abbassa notevolmente la percentuale di mortalità per cardiopatia ischemica dei popoli del bacino mediterraneo. Buona salute, quindi, studiata da Keys nel Cilento, e poi presso il laboratorio di igiene fisiologica all’università del Minnesota. Impostata sulla centralità dell’uomo e legata ai saperi della Magna Grecia ed al pensiero eleatico di Parmenide e Zenone. Frutto di un mangiare sano di piatti poveri con verdure, legumi, pasta fatta in casa. Prima che lo studioso statunitense scomparisse nel 2004 gli venne conferita la Medaglia al merito della Salute Pubblica dall’allora ministro, prof. Girolamo Sirchia, su richiesta di Alfonso Andria, Presidente della Provincia di Salerno, oggi Ministro ombra per le Politiche Agricole del PD che sostiene con Paolo Scarpa (Presidente della Commissione Agricoltura del Senato) la mozione proposta dal Senatore Paolo De Castro per ottenere il riconoscimento Unesco. Patrimonio dell’Umanità come la Grande Muraglia cinese, la piana delle Piramidi di Giza, la Torre di Londra, la grande barriera corallina, la Samba di Bahia o la laguna di Venezia.Mi viene da riflettere sul valore della conoscenza semplice. L’applicazione dell’uguaglianza e della democrazia del vivere e del nutrirsi. Disciplinata da leggi naturali, da esperienze ataviche, da scelte originate dalla contingenza. Dal giudizio superiore di valutazioni che allontanano potere e ricchezza. Una sovranità popolare che detta le leggi nutrizionali e assume la rivincita sull’opulenza smodata delle grasse libagioni castigate con attacchi di gotta e infarti del miocardio. Un insegnamento filosofale, un monito: “Règolati secondo i principi primari, altrimenti la natura si vendica”. Se tutto questo si potesse tradurre in progetto sociale si dovrebbero trasformare i principi della dieta mediterranea in norme della parsimonia nell’utilizzo delle risorse comuni e del buon vivere sociale. Partendo dalla suddivisione degli alimenti in quantità sufficiente per tutti. E da qui la distribuzione del bene pubblico, le opportunità, il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’ambiente non inquinato. L’eredità da lasciare ai nostri discendenti così come l’abbiamo ottenuta. Pensate che enorme danno se i nostri antenati non ci avessero lasciato in eredità ulivi e vitigni. Se qualcuno nel passato (di pazzi ne sono vissuti molti in ogni epoca) avesse deciso di estirpare tutte le piante per l’olio o il vino. Potremmo bere Coca Cola con la spigola alla brace senza neanche soffrire della mancanza di un Vermentino di Sardegna o di un popolare Frascati. La dieta mediterranea è l’opposto dell’ingordigia dell’arraffare. Se il ciclo di metabolizzazione dei beni, la regola della fruizione dei diritti, avesse parametri simili a quelli che regolano lo scambio tra il corpo e la dieta mediterranea, potremmo pensar a un corpo-Stato che consapevolmente non spreca le risorse, le distribuisce saggiamente, non si ingozza, rifugge la superchieria e i privilegi, risparmia, ed è sano nella sua assoluta applicazione dei principi di democrazia. Anche perché non avrebbe scelta. In caso di errata applicazione delle regole l’intoppo del corpo democratico lo porterebbe presto a correggere l’errore. Applicando in politica i principi dell’equilibrio alimentare, ad ogni ingordo componente di una impudica casta verrebbe quanto meno la podagra come un segnale di “stile di vita indecente” che non ci si mette subito a regime porta al colpo fatale senza ritorno. L’idea vincente di queste ponderazioni conduce ad una formula moderna di partito e a un sistema esemplare di gestione pubblica realizzato attraverso la cancellazione dei metodi obsoleti, clientelari, spreconi, dittatoriali e opportunistici della politica in generale. Secondo studi recenti, tra cui quelli di Confindustria, la nostra politica è “costosa e senza progetto”. Costituire un esempio di trasformazione nell’amministrazione pubblica che si basi sul pensiero semplice, non violento, come le calme acque mediterranee o come l’assunto di Gandhi sulla non-violenza che è legge del nostro essere in un futuro al femminile. Per restituire i diritti alle persone, economici, legali, ambientali, culturali, ricreativi e sociali di appartenenza e vera cittadinanza per tutti. Un modello snello, di buone prassi e amore sociale. Con un’attenzione alla cultura e al meglio della modernità realmente utile. Un’ottica femminile della semplificazione, distante dal potere fine a se stesso, rispettosa delle risorse naturali e l’ambiente, ottimista e attiva in un costante progresso. Una gestione saggia, parsimoniosa, pragmatica, di equa divisione delle risorse e opportunità. Un farsi del bene come la dieta mediterranea, alimentazione etica. Un modello vincente. Per la gran parte dei cittadini italiani. Il copyright c’è. Servono sponsor.