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DELIRIO DI ONNIPOTENZA, EFFETTO STUPEFACENTE!

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Da Marrazzo a Morgan, c’è qualcosa che li fa procedere in una dimensione falsata dove tutto, ma proprio tutto, è loro permesso, tra cui anche la possibilità di fare autorete senza rimetterci il campionato Fare autogol. Farsi del male perdendo il lume della ragione, come si dice banalmente. La meraviglia è nella semplice domanda: “dov’è finita la loro intelligenza?”. Trattandosi di persone pubbliche ci si aspetta che facciano funzionare la materia grigia all’interno del proprio cervello. Pertanto questo non è un discorso morale, ma puramente tecnico. Come l’elettricista che unendo due fili con il nastro isolante si aspetta poi che la lampadina si accenda e che continui a restare accesa fintanto che c’è corrente. La domanda che ci si pone davanti al corto circuito è “da che parte arriva il guasto?” Ma non è semplice capirlo di fronte a strampalate frasi e azioni da karakiri. L’uso dell’intelligenza per non danneggiare se stessi è il minimo che si possa aspettare da chi ha dimostrato di non essere un fesso, e pertanto è riuscito a ottenere dalla vita ruoli di prestigio che milioni di persone non osano nemmeno sognare. Invece la delusione è tutta nell’accorgersi che mancano, in taluni baciati dalla sorte come Marrazzo, Morgan, Lapo Elkann, il senso pratico, l’autodifesa, il freno inibitorio che gli impedisce di far danno a se stessi. Mi piacerebbe pure fare un discorso morale, ma non sarebbe efficace nel tentare di capire il fenomeno. Non pretendiamo allora che i soggetti di cui si scrive si debbano preoccupare degli altri, dell’impatto collettivo delle loro dichiarazioni, del danno alla gente, alle persone, ai ragazzi che potrebbero prendere da loro esempio. Lasciamo stare tutto questo e resta la curiosità contabile di chi è abituato a far risultare la cifra nove nella moltiplicazione del tre. Però i conti non tornano. Perché Morgan (che tra l’altro trovo bello e simpatico) fa un brutto giorno la dichiarazione che usa la cocaina come antidepressivo? Cos’è che lo fa straparlare? Voglia di espiazione? Masochismo? Autolesionista non è se poi di corsa ha cercato di smentire le sue stesse dichiarazioni motivandole come un’intervista estorta dall’abile Raffaele Panizza, il giornalista di Max, che invece ha registrato su nastro due ore di colloquio non sconfessabile. Non si aspettava evidentemente Morgan che fosse immediatamente cancellata la sua partecipazione a Sanremo a cui teneva moltissimo (salvo poi affermare di non volervi più partecipare una volta resosi conto dell’impossibilità di far cambiare idea ai vertici RAI). Credeva di vivere in un mondo in cui tutto è meno importante di se stessi e della propria onnipotente esistenza. Era forse entrato in una specie di delirio che fa smarrire le coordinate d’orientamento con la possibilità di restare privo dei vantaggi di una vita fortunata. Credo che lo stesso delirio di onnipotenza lo abbia sofferto Marrazzo, altrimenti come poteva supporre di poter andare con la macchina blu di servizio, nei quartieri dei viados e restarvi ad assumere droga e lì intrattenersi come uno qualunque, o come chi non ha nessuno a cui rendere conto e nessun altro di cui temere? D’accordo non pensiamo alla responsabilità verso il milione e mezzo di. elettori che gli hanno dato fiducia e che forse avrebbero giurato sull’onestà del presidente della regione da loro eletto. Non pensiamo e neanche pretendiamo ormai, in questi tempi imbarbariti, che una persona pubblica debba portare il peso di questi pensieri e di questi scrupoli. Torniamo al conto economico del due più due per capire se si è mai chiesto Marrazzo con quante persone si è reso ricattabile. Moltissime presumo, a partire dall’autista che lo accompagnava che avrà avuto una moglie o una compagna a cui raccontare i rendez-vous, la quale poteva dirlo all’amica del cuore, e questa ai suo fratelli. Quanti sono in questa piccola conta? Già cinque. E tutti gli altri? Dal negozio all’angolo della strada, gli avventori, i passanti. In quanti si saranno intrigati nel vedere spesso e volentieri una macchina blu in via Gradoli? Come si fa a non prevedere una pericolosissima sovraesposizione? La risposta è probabilmente che i soggetti di cui si parla vivono un mondo “altro” che non è – secondo loro – uguale a quello dei comuni mortali con le loro miserie e i loro pericoli. Un mondo speciale in cui nessuno può rompere l’equilibrio e l’onnipotenza degli uomini che ne fanno parte . Una specie di “Io so’ io e voi non siete un c…” detta dal Marchese del Grillo alla teppaglia che aveva tentato di mescolarsi a lui. Alberto Sordi in quel film della regia di Monicelli rendeva bene l’idea del senso di potere grandissimo che il nobile papalino aveva esasperato nel gioco crudele e dileggiante . Quelli però erano scherzi e Il Marchese del Grillo un film. Qui si tratta di vita vera sospesa in un delirio di onnipotenza, che quando crolla porta con sé la frustrazione dei tanti che a quel personaggio pubblico si sono riferiti. Che si sa di certo sulla cocaina? Che è una porcheria assoluta lo si detto e scritto abbastanza? Che lo stesso Sigmund Freud la sperimentò nel 1864 per contrastare i suoi stati depressivi. Il quale poi la prescrisse alla sua fidanzata Marthe Bernays e al suo amico Ernst Fleischl, che sviluppò, insieme ad una forte dipendenza, forme di paranoia fino alla “zoopsia”, (il sintomo delle bestioline), un’allucinazione sensoriale che porta ad immaginare morsi e andirivieni di miriadi di insetti sulla pelle. Vogliamo dirlo che la cocaina conduce a psicosi e deliri? E’ infatti considerata la droga più nociva per il cervello: danneggia irreparabilmente la sinapsi (il passaggio d’informazioni nervose) e i neuroni (le cellule cerebrali) mettendo il soggetto che l’assume a rischio di demenza. Inoltre è causa di ictus, dolori, convulsioni, forti emicranie, nausea, complicazioni cardiovascolari, respiratori e gastrointestinali. Vogliamo dirlo che la cocaina dà dipendenza né più né meno delle altre droghe? Che non è vero che permette performance erotiche o che curi la depressione? Che è vero anzi il contrario: la depressione è un effetto conseguente all’uso nel tempo di questa droga. Vogliamo dire agli adolescenti che non si entra nel mondo dorato dello spettacolo per il fatto che si assume cocaina? Vogliamo dirlo che è falso il mito della polverina magica che rende celebri? C’è un’interessante analisi di Barthes che descrive come si mitizza la polverina che assume il significato di “segno”, cioè un importante veicolo sociale di chi può permettersi la droga dei ricchi e il divertimento dei famosi entrando in uno status mentale e sociale avvantaggiato: il mondo privilegiato di chi ha in pugno la vita. Per essere uno di loro la porta d’ingresso è la coca. Questo trasmettono i messaggi mediatici, tra cui l’ultima fesseria che ha detto Morgan. Marco Castoldi, in arte Morgan, ospite di Porta a Porta, e probabilmente di altri programmi per cercare di sminuire il danno affermando cose diverse da quelle dell’intervista. Direi che dopo un periodo, magari un anno “sabbatico” di riflessione debba poter riconquistare le opportunità che ha perso. Magari andando al prossimo Sanremo 2011, come persona più matura e “autentica”. E’ augurabile perciò un credibile percorso di recupero e riparazione. Verso se stesso prima di tutto. E poi verso tutti gli altri che sono disorientati dall’assenza di spessore morale di tanti, troppi, personaggi pubblici. Dovrebbero dirlo forte in tanti “opinion leader” che non è vero che chi usa la “famosa” polverina diviene a sua volta famoso, oggetto di ammirazione e di invidia da parte di chi è escluso da quel mondo dorato-dopato. Dirlo, ripeterlo e magari scriverlo, una volta tornati a camminare con i piedi ben poggiati a terra. Roma 5 febbraio 2010 Wanda Montanelli

L’EVERSIONE DI AVATAR, DESIDERIO DEGLI UMANI

. Quelli che per far trionfare il bene sul male e veder finalmente riscoperti i valori ambientalisti devono ricorrere al cinema 3D Le grida forti della disperazione di fronte alla distruzione del proprio mondo sono la parte più vera di Avatar. Il dolore che travalica i confini tra uomini e alieni e rende simili di fronte alla morte: dal sud d’Italia come ad Haiti, dalla Terra a Pandora. Un urlo come una fitta che ti spacca l’anima in pezzi. Neytiri, la donna Na’vi che piange i suoi morti ha gli occhi della sofferenza che la rendono umana e cancellano d’incanto il colore blu della sua pelle, le sembianze d’animale, la coda le orecchie e quel corpo alieno. La possibilità di avere una nuova chance in un altrove impensato è il fascino di Avatar, più che nella sbalorditiva tecnologia costata quasi quattrocento milioni di dollari. Certo l’impatto è forte con le cadute a precipizio in strapiombi profondissimi, le risalite verso l’alto e il volo bizzarro dei banshee, mostruose creature alate: l’ingresso nel film tridimensionale fa toccare quasi con mano ogni persona e cosa, e la fuoriuscita di oggetti dallo schermo li avvicina a noi, ai nostri sensi per renderli tangibili e fantastici nello stesso tempo nella versione in 3D. L’opportunità nuova del marine Jake Sully (interpretato dall’australiano Sam Worthington) di lasciare il suo corpo paralizzato e vivere nel corpo del suo avatar è la chiave del messaggio di salvezza di James Cameron. Il sogno che si realizza nella realtà di un corpo costruito in laboratorio. Da adesso la nuova speranza di noi umani è nel pensare di addormentarci e affidare al nostro avatar vigoroso di forza e di risorse il compimento di tutte le missioni in cui potremmo aver fallito. L’anticonformismo di Avatar è nella riuscita benefica di ogni soggetto anche orrido che riempie la scena. La natura di Pandora affollata di pericoli non è ostile fino al punto di non poter essere domata; quindi è buona per gli abitanti di Pandora che la governano e trovano modi di vivere in simbiosi con lei, in scambi di energie positive e sogni cullati dalle amache dell’enorme albero casa. La modernità di Avatar è nella concezione non sessista. Finalmente le femmine sono a fianco dei maschi, libere di cacciare e di scegliere il proprio compagno. Potenti nella guerra, nella marcia per i dirupi stretti irti di radici o con lanci tra le liane. Tenere e forti come…donne. Non bambole-oggetto della degenerata raffigurazione mediatica dei nostri giorni. Il linguaggio audiovisivo è spostato in avanti di decine di anni, ma il valore primitivo della dignità delle persone non teme patine di vetustà e si espone con tutta la casistica sentimentale e romantica. E’una donna guerriera, Trudy Chacon (Michelle Rodriguez), la soldatessa che si ribella al massacro dei Na’vi e dichiarando “Non mi sono arruolata per questo schifo!” e da il via alla reazione della parte sana dell’America. La parabola antimperialista con rimandi a Hitler per l’uso del gas contro i Na’vi, o a Bush per la messa in atto dell’attacco “preventivo” è presente anche nell’antimilitarismo dei potenti apparecchi di volo che si distruggono con mezzi rudimentali e pezzi di manufatti inseriti negli ingranaggi. Certo con molta fatica e scene avveniristiche e lotte di titani meccanici, bulldozer soccombenti finalmente. Un “Arrivano i nostri” al contrario in cui “gli indiani” con le loro frecce avvelenate vincono la potentissima macchina da guerra, e stranamente la platea tifa per loro ed ignora il richiamo delle trombe del generale Custer. Hanno le frecce, le trecce, la spiritualità, e sono gerarchicamente obbedienti a principi guerrieri. Neytiri e Jake Sully si amano per la comune bellezza interiore che li rende uguali pur appartenendo a due mondi lontani. La dottoressa Grace Augustine, interpretata da Sigourney Weaver, sopravvive anche lei nel corpo del suo avatar perché il mondo degli umani non ha più posto per lei, né comprende gli esiti della sua ricerca scientifica e il rispetto per i nativi di Pandora. Il film è eversivo in una ribellione di soldati Usa sani contro nuovi dittatori assetati di ricchezza e potere. Il motivo per cui distruggono l’enorme albero casa è per un minerale raro che si chiama Unobtainium (gemito), contenuto sotto le radici dello stesso albero sacro. Ci viene in mente il valore del petrolio causa di guerre preventive e massacri di popolazioni. Avatar è eversivo fino in fondo. Lo è nella natura che si ribella: animali, piante, umani e umanoidi contro la cieca sopraffazione. Ma la rivoluzione di Avatar è nella capacità di ricominciare da capo a costruire un mondo migliore diverso dal nostro ormai deteriorato dalla mentalità autodistruttiva. Il fallimento di Copenaghen nonostante la paura per il riscaldamento globale trova conforto nel sogno visto in tre dimensioni. Al Gore, tutti gli altri convenuti al convegno sul clima si daranno ancora da fare per dare un destino diverso alla nostra terra. Speriamo che fra 150 anni nessuno possa dire: “Non c’è verde sul loro “mondo morente” perché hanno ucciso la loro madre”. 27 gennaio 2010 Wanda Montanelli

FENOMENOLOGIA DELLA VIOLENZA E NEW MEDIA

L’azione “Tartaglia”come nell’effetto “Werther” emula gesta negative apprese da messaggi suggestivi e condizionanti Le parole sono pietre. Dette in televisione sono armi pericolose. Le ascoltano tutti. I sani di mente, i depressi, gli esaltati, i pazzi. Le parole vanno misurate. Specialmente se è un politico a dirle o un leader di qualsiasi genere. Le immagini sono sogni. Viste in televisione sono figure piacevoli oppure incubi. Le immagini vanno misurate. Le vedono tutti. I sani di mente, i depressi, gli esaltati, i pazzi. Chissà per quanto tempo rivedremo in tv o nella carta stampa le ferite sul volto di Berlusconi. Dovunque le vedremo purtroppo: sui blog, youtube, facebook. Per favore non mettete foto sanguinolente nello spazio della mia pagina di facebook. Appartengo ad una generazione che ancora ha ripulsa delle immagini cruente. Ce lo hanno insegnato da piccoli. La goccia di sangue che sgorga da un dito dopo una puntura di spillo mette i brividi e procura dolore. Anche se non è nostra. Si entra in empatia con chi è ferito tanto da sentire fitte nel proprio corpo. Questo non ha nulla a che fare con il coraggio. Potrei essere una guerriera costretta a fare una guerra tanto da guardare in faccia la morte. In tal caso non avrei paura. Ma dolore si, nel vedere il sangue umano scorrere. La linea di demarcazione è lì. Nell’essere umani o alieni. I nuovi media hanno abituato generazioni intere a non badare al dolore (quello degli altri). Hanno insegnato a guardare con il teleobiettivo dentro corpi feriti senza provare nulla se non curiosità, quando non addirittura gusto per l’orrido. In entrambi i casi il disprezzo verso l’uomo è entrato nelle nostre esistenze. Cinismo. Sguardo amorale sui supplizi altrui che riduce a ben poca cosa noi stessi. Il disadattato psichico che ha lanciato una statuetta contro Berlusconi è stato indotto a farlo dal clima e dalle parole dure come pietre. Non si fa un buon servizio al paese ignorando quanti borderline vanno in giro liberi di colpire se individuano un avversario. Antonio Di Pietro probabilmente si riferiva a ipotesi di scontri di piazza con le sue dichiarazioni dopo la manifestazione “viola”. Il che nelle parole intendeva prevedere o scongiurare reazioni di violenza che pur condannabili hanno comunque una corrispondenza politica. Non così invece si può classificare il gesto sconsiderato di un depresso psichico che oltre ad aver colpito il primo ministro, ha causato la diffusione mondiale delle ferite al suo volto. Un effetto politico-mediatico disastroso per i nemici di Berlusconi. Una rappresentazione di noi italiani che farà il giro del mondo. Una brutta pagina che era meglio non scrivere. Capiranno un giorno che l’unica arma per vincere il cavaliere è il tono composto, l’ironia, lo sminuzzamento pacato degli argomenti difensivi da lui inventati? L’uso del Parlamento e delle prerogative di democrazia garantite dalla Costituzione sono strumenti legittimi che alla lunga rendono la verità tangibile e dimostrata. La critica severa all’operato del governo deve essere detta con competenza, documentata con dati, reiterata con l’uso suggestivo dei media. Parlando, senza ringhiare. Si persuade di più con autorevolezza e classe che non con scomposte reazioni che esaltano negativamente chi non aspetta altro per dare sfogo alle proprie frustrazioni. Di Pietro nel suo obbiettivo di fruttuosa belligeranza deve capire che ormai il barile è raschiato. Dall’accordo con Veltroni tutti i voti possibili li ha già “spostati” e acquisiti come unico leader forte avverso a Berlusconi. Ora senza un coerente e limpido iter politico può solo perderne, anziché aumentarne. Le frecce al suo arco si spuntano se non fa quelle due o tre cose che la sua base reclama, e se non ascolta le voci di chi ancora crede in una politica integerrima e rispettosa dei diritti a partire dai resoconti interni, e dall’autocritica degli errori. Dal partito alcuni attivisti hanno mandato comunicati stampa per dare dimostrazione di esecrare la violenza e prenderne le dovute distanze. Come il dipartimento estero in Olanda con Silvia Terribili e molti militanti che si stanno dando da fare per la nascita di correnti nuove nel partito dei “valori”. Una presa di distanza immediata quanto opportuna è giunta da tanta parte politica nei confronti dell’emblematica aggressione che potremmo definire da qui in avanti “effetto Tartaglia”. Una conseguenza paragonabile a risultati deleteri che lo studio della psicopatologia può ricondurre già da tempi lontani al famoso effetto Werther, così definito da Brigham nel 1844 nella prestigiosa rivista “American Journal of Insanity, in cui scriveva: “Un semplice paragrafo di cronaca giornalistica può suggerire il suicidio a venti persone”, e dava il nome al fenomeno riferendosi a “I Dolori del Giovane Werther” che moltiplicò i suicidi tra i lettori del romanzo di Goethe. Karl Popper per primo scrisse che occorre una patente per la tv. La televisione può essere scuola di violenza o di dabbenaggine. Raramente è puro divertimento o informazione utile. Quasi mai è educativa e non si pretende che lo sia se non in contrapposizione a tutte le volte che è “diseducativa” trasmettendo volgarità, illusioni e falsi storici. Gli effetti dei media nuovi e vecchi si deve conoscerli per non far danni. Oltre ai suicidi seriali c’è un’ampia casistica di omicidi seriali. Il più recente è conseguente al delitto di Meredith Kercher commesso da Amanda Knox e Raffaele Sollecito. A Parigi, per esempio, Jessica Davies una 28enne sotto l’effetto di droga e alcol, ha sgozzato il proprio amante per emulare Amanda Knox, e durante l’interrogatorio ha rivelato che a darle l’ispirazione è stata la morte di Meredith Kercher. Ma gli esempi sono tanti. In Colorado, negli Stati Uniti, due ragazzi di 17 e 16 anni hanno ucciso una bimba per emulare le gesta dei personaggi del videogioco Mortal Kombat. Numerosi sono pure gli omicidi derivati dal film di Oliver Stone Assassini nati (Natural Born Killers). Negli Stati Uniti si intentano e vincono cause con risarcimenti miliardari per questo tipo di danno da mass media. Diversi parenti di vittime hanno fatto causa contro Stone, come i parenti di due donne uccise in un sobborgo di Salt Lake City (Utah), il cui assassino Nathan K. Martinez risiedeva in un motel in Nebraska. Una volta catturato l’uomo ha detto di aver visto il film dozzine di volte e di essersi rasato per meglio compenetrarsi nel ruolo dell’assassino e somigliare di più al personaggio interpretato da Woody Harrelson. La pagina va voltata, ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano. Per risolvere realmente i problemi del paese è ora davvero che si muti strategia politica e si inneschi un virtuoso effetto crescita di tutte le categorie sociali attualmente in sofferenza e povertà. Di questo abbiamo bisogno, non di sangue. 15 dicembre 2009 Wanda Montanelli

COME ALLA CAIENNA

In “Papillon”, libro autobiografico di Henry Le Charriere, i carcerati non avevano di che stare allegri, ma anche allora un massacro così gratuito, stupido e crudele come quello capitato a Stefano Cucchi sarebbe stato incomprensibile

Può capitare in certi posti che un giovane arrestato per pochi grammi di droga venga massacrato di botte, fratturato in più parti del corpo tanto fino al punto da morirne in ospedale da solo come un orfano, senza poter vedere né i suoi genitori, né il suo avvocato. Paesi incivili. Chissà dove sono. In Birmania, Thailandia, Kenya? No a Roma. Quando? Secoli fa? No. Nel mese di ottobre 2009. Adesso. Questo il rapporto di “Chi l’ha visto”, Raitre: “Stefano Cucchi, 31 anni, è stato arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre al parco degli Acquedotti di Roma per il possesso di 20 grammi di hashish. E’ stato accompagnato a casa per la perquisizione e quindi in una cella di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza. Al momento dell’arresto, secondo quanto riferito dai familiari, stava bene e non aveva segni di alcun tipo sul volto. La mattina del 16, all’udienza per direttissima, il padre ha notato che era magro e gonfio in faccia ma camminava da solo, senza bisogno di sostegno. La sera di sabato 17 è stato comunicato alla famiglia che Stefano Cucchi era stato trasferito d’urgenza al reparto detentivo dell’ospedale “Pertini”, sembra per “dolori alla schiena”. I genitori si sono precipitati a fargli visita, ma non sono stati ammessi né sono riusciti a parlare con i medici. Il permesso è stato loro accordato per giovedì 22, ma la mattina di quel giorno Stefano Cucchi è morto. Il 29 ottobre la famiglia ha indetto una conferenza stampa insieme con l’associazione “A buon diritto. Abbiamo notizie che ricoverato all’ospedale Pertini il ragazzo chiedeva di parlare con il suo avvocato. Non gli è stato concesso. Tantomeno gli hanno permesso di vedere i suoi familiari. A un omicida incorreggibile avrebbero riservato un trattamento più umano e legale. Sappiamo dell’aggressione perché un detenuto testimone che ha condiviso una stanza con Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli ha potuto ascoltare Stefano che diceva: Hai visto come mi hanno riempito di botte?”. “Come si può far morire in un ospedale una persona in quel modo? – si interroga Fabio Anselmo, suo avvocato che in una nota alla stampa prosegue – Dicono che Stefano rifiutava il cibo e le bevande, mi chiedo come sia possibile che non sia stato intubato”. Da fonti di radio radicale risulta che il ragazzo non stava facendo lo sciopero della fame per motivi “strani”, ma molto concretamente voleva ottenere un colloquio con il suo avvocato. Però come avviene nei peggiori paesi totalitari a Stefano non è stato permesso di vedere il suo legale. Hanno ritenuto più opportuno che morisse portando con sé nell’oblio i nomi e i cognomi dei suo spietati massacratori. Come nel libro nero delle carceri più famose per inciviltà, quali Tadmor Military Prison, in Siria; La Sante Prison, Francia; La Sabeneta Prison, Venezuela; Carandiru Penitenziaria, Brasile; Rikers, New York; Prison Diyarbakir, Turchia; San Quentin State Prison, in California; Prigione ADX in Colorado; Prison Nairobi, Kenya. Siamo nella stessa lunghezza d’onda di luoghi di pena che credevamo molto lontani dalla nostra civiltà. Invece la brutta pagina scritta in Italia, patria di Cesare Beccaria ci fa tornare indietro di secoli (Dei delitti e delle pene, 1764). Scriveva Beccaria che la pena “deve essere attuata prontamente”, altrimenti perderebbe il suo effetto educativo, che “la pena di morte è ingiusta in quanto immorale e antieducativa e non si può insegnare a un popolo a ripudiare l’omicidio, se lo Stato stesso ne fa uso”. I pareri dei nostri politici sulla brutale aggressione sono vari e diversi Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha rimandato agli esiti dell’indagine in corso. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, ha vece sollecitato l’intervento del Governo in Parlamento per necessità di fare chiarezza sulla vicenda. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha accolto l’istanza ed ha riferito il 3 novembre in Senato rivelando che il giovane avrebbe negato l’autorizzazione ai medici di informare i propri congiunti. Il senatore del Pd Ignazio Marino, ha inviato i Nas all’ospedale Pertini per raccogliere tutta la documentazione disponibile. Nel frattempo dichiarazioni di stupore si registrano come quella del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e del segretario dell’Udc Cesa che ritengono sconvolgente l’accaduto, insieme a numerose altre sullo stesso tono. Il sindacato di polizia penitenziaria, (Osap) sollecita l’accertamento della verità attraverso il suo segretario Beneduci che afferma: “Nessuno ha mai detto che la responsabilità della morte di Stefano Cucchi sia dei Carabinieri, ma di certo non è della polizia penitenziaria, ed a chiamare il medico della città giudiziaria sono stati gli agenti di polizia penitenziaria perché Cucchi si sentiva male”. Insomma dichiarazioni caute alcune, foderate di cinismo altre, ma come Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza, non c’è stato nessuno che abbia tentato di voler coprire un cratere con un cerottino. Il sottosegretario Giovanardi ha detto alla trasmissione ‘24 Mattino’ su Radio 24: “Stefano Cucchi è morto perché ‘anoressico, drogato e sieropositivo’. Era in carcere perché era uno spacciatore abituale. La verità verrà fuori, e si capirà che è morto soprattutto perché era di 42 chili”. Che dire di una così inadeguata dichiarazione? La sieropositività sembra risultare solo a lui, come solo a lui risulta che possibili conseguenze da ‘anoressia e assuefazione alla droga” siano ossa rotte, occhi pesti, gonfiori ed ecchimosi dappertutto. La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi nel dolore della perdita del fratello classifica come vergognose e diffamanti le affermazioni sullo stato di salute di suo fratello e le percepisce come un vero e proprio atto di sciacallaggio. “Vogliamo sapere che cosa è successo”, insiste Ilaria insieme al padre. Alla domanda: Come è morto Stefano Cucchi? Sembra dare alcune risposte il senatore Luigi Manconi, portavoce dei Verdi: “Ho avuto modo di vedere – afferma – le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata. È inconfutabile che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi – come testimoniato dai genitori – è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale”. Alla faccia del trattamento educativo! Altri casi di criminalità carceraria sono conosciuti oltre a quello di Stefano Cucchi: Diana Blefari Melazzi, brigatista suicida di pochi giorni fa. Soffriva di “grave disturbo psicotico della personalità”. Nulla è stato fatto per impedire la sua morte annunciata. Che valore ha la vita di un uomo in carcere? Il giornale “La Città di Teramo”, ha ricevuto e divulgato un nastro in cui è possibile ascoltare degli agenti di polizia penitenziaria dire: “Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto… Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto” e la Procura di Teramo ha ora aperto un’inchiesta. Il Corriere di Rimini riporta che un uomo di 41 anni di Bari è stato condannato nell’agosto 2008 a 4 anni e 5 mesi per il furto di uno zaino in spiaggia. Per una serie di aggravanti fra cui la recidiva specifica e il fatto che si trovava in Romagna in violazione delle misure di sorveglianza alle quali era sottoposto. Che significa? Uno zaino è uno zaino. Ci sono assassini che quattro anni di condanna non li hanno mai avuti. Martedì 16 novembre, nel carcere di Palmi (Reggio Calabria) un uomo di Bari arrestato per un reato commesso a Rimini, visti gli inutili tentativi di ottenere gli arresti domiciliari in una comunità di recupero, disperato si è tolto la vita in cella con il fornellino del gas. Nessuno lo aveva avvertito che provvedimento di scarcerazione era già arrivato da più di 24 ore negli uffici del penitenziario, grazie alla richiesta dell’avvocato Martina Montanari che era stata accolta dalla Corte d’Appello di Bologna. Dal 1980 al 2007, 1.371 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane (con frequenza dei suicidi 21 volte superiore rispetto al resto della società. Questo accade mentre l’ordinamento penitenziario riguardo alla rieducazione dei detenuti prevede: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento é improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. Invece botte da orbi. E un massacro che nella prigione della Guyana francese, l’isola del diavolo, sarebbe stato troppo crudele, specie se davvero il ragazzo era anoressico, quindi debole e privo di alimentazione. I medici avrebbero dovuto somministrargli alimenti e idratazione con i mezzi a loro disposizione. Qualcuno deve rispondere e spiegare: chi ha ucciso Stefano Cucchi? Senza risposte certe l’affare si fa ancora più inquietante. Sarebbe come ammettere che esistano interregni, in cui le leggi italiane non hanno significato. Come dire “terre di nessuno”. E questo non si può accettare. Fingendo di nulla diverremmo tutti bastardi come coloro che hanno ucciso Stefano. 3 dicembre 2009, Wanda Montanelli

A BRESCIA A BRESCIA!

Concita De Gregorio, eccole le donne perché non ne fa un editoriale? Ci siamo sentite in colpa ad agosto perché si ricercavano le donne assenti, e per quelle di noi che nei dieci giorni di mare non ne volevano sentire di politica sono affiorati rimorsi tali da rendere amaro il gelato al pistacchio e fredda la frittura di calamari. Scambi di telefonate tra noi donne di varie associazioni “ma hai letto che scrive l’Unità?” Ho letto sì. – Unità 12 agosto: «Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»; – Unità 13 agosto: «La rivoluzione interrotta delle donne»; – Unità 14 agosto: « Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce», di Lidia Ravera; – Unità 17 agosto: « Benedetta Barzini: alcuni indizi sul mutismo delle donne»; – Unità 20 agosto: «Primo: rompere il silenziatore su ciò che fanno le donne» di Livia Turco; – Unità 21 agosto:«Scambio tra corpi, poteri maschili nel silenzio che pesa» di Elettra Deiana; – Unità 21 agosto: «Care donne (e uomini sani) ora va vinta l’indifferenza» Insomma ci hanno “sbomballato”. Sarà stata la penuria di notizie durante la calura estiva che ha indotto a tirar fuori dal dimenticatoio le donne, o sarà che ci si aspetta dalle donne che siano risorsa sempre e che dopo aver fatto le doppiolavoriste per tutto l’anno organizzino manifestazioni agostane per movimentare la noia dei vacanzieri in città. E dire che qualcuna ci ha creduto. “Dai organizziamo una manifestazione!” era il ritornello nella segreteria telefonica , nelle email o al telefono. Ma che organizziamo – scimunita che non sei altro – in pieno agosto? “Colmiamo il vuoto!” “Sì, quello del cervello. Facciamo da tappabuchi!” Tappabuchi altro ruolo in cui le donne sono formidabili metamorfiste. Un mestiere in più fra tanti che fa curriculum: lavoranti, mogli, madri, dattilografe di casa, amministratrici, cuoche, infermiere, amanti, sorelle, e… TAPPABUCHI! Ma che fa! Anche questa funzione va bene… Purché se ne parli diceva Oscar Wilde. In fondo val la pena di cogliere un’opportunità perché di ciò che le donne pensano o fanno se ne dice sempre troppo poco. Come? Le tv ne son piene! Direbbe qualcuno ricordando seni e glutei a volontà. Ed è lì il disastro. Pensare troppo al contenitore e nulla al contenuto. Ma un po’ cambia ultimamente il vento. Sarà perché la gente è stanca di grossolanità, sarà per la critica feroce della stampa estera. Leggo Wolfgang M. Achtner, l’autore di “Il reporter televisivo. Manuale pratico per un giornalismo credibile” che da anni ormai punta il dito contro il giornalismo e la tv nostrane. Sarà perché i tempi son maturi e la domanda è superiore all’offerta. Ci si sta rendendo conto che le cose di donne interessano. Tanto è vero che il documentario “Il Corpo delle donne” è stato visto da migliaia di persone in poco tempo dopo la sua pubblicazione. Lorella Zanardo ce lo ha raccontato durante l’incontro con la Stampa estera del 5 novembre alle 12.00 dove Concita De Gregorio (assente ingiustificata ) doveva essere con Rosy Bindi, la Zanardo e me a raccontare se le donne sono “Silenti o silenziate”. Le domande di Megan William che coordinava gli interventi tendevano a scandagliare le motivazioni sociali che rendono così singolarmente in ritardo l’effettiva cittadinanza femminile italiana. L’attacco alla tv nostrana da parte di Achtner ha trovato un temperato distinguo da parte di Rosy Bindi che ha replicato che pur essendo un prodotto discutibile il G.F. è comunque di derivazione estera. E’ vero infatti che lo abbiamo importato come tanti format di cui non dovremmo avere bisogno dati i costi della tv pubblica e i talenti di autori completamente ignorati. La differenza tra noi e gli altri paesi è che qui il GF. ce lo propinano in tutte le salse e se non vuoi proprio vedere devi fare saltapicchio tra decine di programmi che te lo ripresentano. Siccome non si riesce ingoiarlo nemmeno liquido (“manco ‘a bbrodo ne mastica!” dicono in Sicilia), diventa una fatica scansarlo perché i tg, i talk show, i programmi naturalisti, le strisce e quant’altro ti rimettono la minestra riscaldata e becera davanti agli occhi e fai fatica a riuscire a “non vederli!” Persino la Gialappas band che diverte da matti non si può più vedere perché il tranello del Grande fratello emerge come sughero nel mare anche tra le loro facezie spassose. Mi sono posta come punto fermo il non voler vedere i GF. Non l’ho mai visto, non ne conosco i personaggi né intendo conoscerli. Ebbene vorrei vincere la mia scommessa. Ma è dura! Se un decimo del tempo perso appresso al G.F o all’Isola dei (presunti) famosi (riproposta quasi con la stessa insistenza) lo si dedicasse alle idee delle donne, alle loro iniziative, anche quando come il più delle volte accade non sono “portate” dai partiti, si farebbe un livellamento verso l’alto della qualità dell’offerta di tv che, sebbene generalista, si mostra particolarmente insofferente verso il genere, quantomai ostico ai programmatori di palinsesti, “Donna pensante”. Stessa cosa si può dire della stampa, tranne qualche caso in cui si avanza timidamente il tema. Mi rivolgo a Concita Gregorio, che lamenta l’assenza delle donne, tuttavia poco o nulla scrive delle donne che sono in piazza. Invece quante cose fanno le donne. L’Udi ha da un anno iniziato il tour d’Italia da Niscemi a Brescia, per segnare di paese in paese la protesta e lo sdegno. Ci sono migliaia e migliaia di donne che in questo anno si sono spese di centro sociale, in teatro di periferia, da piazze importanti e strade buie teatro di aggressioni. Dove risulta tutto questo? In Donna-tv? Grazie Eleonora Selvi e Salima Balzerani! Ma tutti gi altri dove guardano quando le donne stanno in piazza? L’Udi, L’Onerpo, Donne in Quota, e decine di altre associazioni hanno seguito il viaggio che ha toccato ogni luogo d’Italia. Ma non vi viene la curiosità di sapere chi sono queste donne che si spendono per anni gratis, che sognando il cambiamento organizzano, scrivono, si chiamano, si autotassano, si fanno da sé i manifesti, le foto, i filmati, gli articoli sui blog, i turni massacranti dopo il lavoro. Chi sono, cosa pensano, che vogliono? Non vi incuriosisce tutto questo. Di che giornalismo vi occupate? Solo quello delle segreterie dei partiti? Ma porca miseria la gente è per strada ed esprime pareri e bisogni anche senza tessere in tasca! Concita faccia la sua parte. Si chiama “STAFFETTA DELLE DONNE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE” e il nome stesso espone la nostra forza e il nostro limite. Senza cappelli e simboli, senza caporali padroni. Donne da ogni dove, credenti e atee, di destra e di manca e di centro. Associazioni ecologiste, animaliste, femministe, femminili, evangeliche, buddiste, musulmane, ebree. Non ce ne importa un fico secco. Qualunquiste? No qualunquisti siete voi, che portate a casa un qualunque vantaggio da chi è disposto a darvene. Noi abbiamo le idee chiare su ciò che vogliamo e spesso per raggiungere i nostri obiettivi ci rimettiamo in proprio. Oggi lo scopo che ci porta in piazza è quello di dare un forte segnale di dissenso contro la violenza. Domani ci sarà altro. Ci aspettiamo un editoriale. Altrimenti il prossimo agosto non rompete i marroni e lasciateci mangiare il fritto di mare in pace. 20/11/2009 Wanda Montanelli