Niente di peggio poteva trovare Anna Maria Ortese nel cercare il titolo per suo angosciante libro Il mare non bagna Napoli in cui una verità di dolore e di mal di vivere deriva dallo spaesamento della gente nell’Italia del dopoguerra. Il ritratto della città che emerge dai racconti è senza rimedio, è un groviglio infernale di vicoli privi di luce, bassifondi reali e morali della gente che vi abita.
Ho letto il libro molti anni fa, negli anni ’80, a distanza di circa trent’anni dalla prima pubblicazione, e pur apprezzandone la qualità letteraria, la narrazione satura di contenuti gravi come macigni mi portò a leggere parti del testo a piccole dosi, come ogni medicina amara che è efficace nei suoi componenti, ma insopportabile da mandar giù.
Non è vero che il mare non bagna Napoli
All’ultima pagina del libro è ancora presente oggi l’angolo con la piccola piega in cui annotai la frase “Non è vero che il mare non bagna Napoli”. Era una delle prime canzoni che componevo. Da ottimista quale sono, desiderai rimuovere l’immagine di un sordido ambiente senza spiragli né attese di cambiamento, e per fuggire dal groviglio infernale di vicoli bui abitati da “larve” lasciai l‘orrore nelle pagine del libro, presi la chitarra, intonai gli accordi in Re, La7, Mi7, e iniziai un canto per me consolatorio: “No, non è vero che il mare non bagna Napoli, che la speranza con vento non soffia più. No non è vero che dentro son tutti morti. Se tocchi il fondo qualcosa ti spinge su…”