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VENDITORI E VINTI

Il saccheggio dell’Italia è al minimo storico del degrado. La Politica sporca ha finito di disonorare le istituzioni, o il peggio non è ancora arrivato?

Devono pagare i mutui, sistemare il parentado con incarichi lautamente remunerati, aumentare le occasioni di guadagno e di potere, assicurarsi catene di consensi con il sistema dare-avere, prendere a piene mani tutto il possibile finché dura. Un saccheggio dell’onorabilità italiana politica e istituzionale senza precedenti. Niente attecchisce in un terreno non idoneo, e sappiamo quanto la corruzione sia nel tempo permeata a tutti i livelli politici e istituzionali. Tangentopoli, nonostante gli errori, è sembrata nel ‘92 una sterzata brusca verso un cambiamento di rotta. Si era ritenuto di aver raggiunto il massimo livello di tollerabilità, gli italiani erano in piazza a protestare contro la corruzione, gli imprenditori stessi testimoniavano il loro obbligo a versare tangenti per lavorare, i costi dei lavori pubblici avevano assurdamente indebitato le casse dello Stato. Occorreva una svolta. Un cammino virtuoso verso scelte di pragmatismo congiunte a dirittura morale. Un nuovo corso della politica. Per il bene di tutti. Per il nostro Paese che merita di essere governato bene. Senza ideologie primitive, ma con cuore e testa verso la crescita comune. L’ambizione di un politico di dare il meglio ai suoi rampolli è più che legittima. L’errore è nel ritenere che il proprio figlio debba scavalcare tutti per arrivare primo in un posto che non merita. Lo sbaglio è far trovare, ad un amico, prenotazioni immediate nella struttura Asl non tenendo conto di una lista d’attesa che dura mesi per milioni di cittadini. La pecca grave è nel creare corsie preferenziali a mille all’ora per pochi invece di lavorare a percorsi giusti per tutti. Volere il meglio per la propria famiglia è la mission di un uomo di governo. La trave che acceca la sua ridotta visione del mondo è il ritenere che i consanguinei siano il centro del suo esistere, la sua famiglia. Lo scopo primario di chi governa deve essere invece il benessere dei cittadini che a lui si affidano. “Governare con la diligenza di un buon padre di famiglia”, è l’obbligo del capo di un condominio che gestisce beni in quantità e valore ridotti. A maggior ragione, diligenza, operosità, controllo sulle spese e riscontro dei risultati deve essere alla base della condotta di ogni amministratore pubblico, sicché la famiglia comune ne verrà avvantaggiata, e con essa anche la propria di consanguinei. In questo consiste il compito di buon padre di famiglia dell’uomo pubblico, sia esso ministro della repubblica, premier, o consigliere a Monterone. I vinti della politica italiana sono sotto gli occhi di tutti. Il fallimento è evidente. E’ vinto chi compra è vinto chi vende. Le ideologie sarebbero finite da decenni, l’idealismo è solo una larvata idea di come si vorrebbe un mondo migliore. Inesistente nei tanti amministratori che si comportano come se il mondo finisse domani mattina e acchiappano a piene mani. Una vergogna. Ma loro non sanno cosa sia la vergogna. Sono maldestri e incolti, sono cresciuti nel ventre molle di un’Italia di maghi e fattucchiere, credono in fortune alla Vanna Marchi cresciute sulla povertà morale e incentivate dalla paura e il bisogno altrui. Questi indegni amministratori pubblici che ci ritroviamo devono sparire dall’opera pubblica. Andarsene per sempre. Hanno talmente poca stima di sé che sono un cattivo esempio per i loro stessi figli ai quali tengono e per i quali apparentemente si macchiano di reati forse penali, certamente etici. L’Italia non merita la loro goffaggine morale, il loro pressapochismo, la vista corta e il senso ineluttabile da fine del mondo che li fa godere tutto il godibile adesso, subito e a dispetto di tutti. Sono vinti in partenza. Sono poveri di spirito. Non sanno costruire che l’indiscutibile benessere della propria fugace esistenza. Devono lasciare il campo libero per ricominciare daccapo. Sperando che toccato il fondo non si possa che risalire. Roma 12 dicembre 2010, Wanda Montanelli

SARA’ DAVVERO L’ULTIMO INCONTRO PERCHE’ TI UCCIDERA’

. Cosa porta il cuore delle donne ad essere così cedevole da andare incontro alla morte? Emiliana era giovane e bella, con una vita davanti e prospettive di felicità, nonostante il brutto ricordo delle coltellate inferte alla sua gola. Brutte cicatrici nel corpo e indelebili nell’anima. Emiliana ha ceduto alle richieste pressanti del suo ex fidanzato per avere un “incontro chiarificatore”, e come per il copione scontato di un drammaturgo con poca fantasia è stata barbaramente uccisa. Questa volta con trenta pugnalate. Il suo assassino, Luigi Faccetti di 24 anni era agli arresti domiciliari, per il precedente tentato omicidio contro Emiliana, ed è riuscito, non si capisce come sia possibile, a far sì che la sua vittima lo raggiungesse da Villaricca fino a Latina dove lui viveva. Emiliana è l’ennesima vittima di uomini che non accettano di essere lasciati. Presso la casa Internazionale delle donne di Roma c’è un’intera parete di immagini e storie di donne uccise così. Il fenomeno è ripetuto come per un rito sacrificale. Le modalità sono sempre le stesse: un appuntamento in macchina, a casa, o per strada, allo scopo di chiarirsi. “Sarà l’ultimo incontro” dice lui, ed è sincero, caspita se lo è! Non mente. Sarà davvero l’ultimo perché cancellerà la sua ex innamorata dalla faccia della terra. Mai un uomo può essere più sincero di quando promette “non ti importunerò più dopo quest’ultima volta”. E mica si può importunare più chi sta dentro una bara! “Parliamo per l’ultima volta”, dice lui. Lei dubita, ma come si fa dire di no? Lui implora al telefono, con biglietti, con sms. Lei ci crede. Esce di casa e va speditamente incontro alla sua morte annunciata Sono tanti i motivi che permettono il ripetersi di questa trama apparentemente banale. Spesso i tentativi dell’ex innamorato di riallacciare il rapporto, secondo l’esperta forense Rosemary Purcell, generano nella donna “complesse e confuse emozioni”. La persistente forma di vittimizzazione dell’amante respinto “induce la persona che la subisce ad interrogarsi sui propri atteggiamenti, a ritenersi in qualche modo responsabile delle azioni del persecutore, soprattutto se si tratta di un ex partner, e questo tipo di interpretazioni è, a volte, avallato dai giudizi altrui”. L’uomo assillante perché respinto, rientra molte volte nella categoria delle persone socialmente inadeguate, frutto di una cultura, diffusa attraverso stampa e tv, che oggettivizza il corpo delle donne. L’indottrinamento che deriva da tali agenzie culturali è la divulgazione di modelli persecutori che concepiscono l’intrusività indesiderata come un modello vincente per l’uomo. La donna oggettivata, non più pensata come persona, è la cosa di cui l’uomo si sente proprietario, e sappiamo bene che una “cosa” non può decidere di andarsene, né può essere data ad altri senza il beneplacito di chi ne ha il possesso. Non si tratta quindi di amore, ma di egocentrismo esasperato; di senso del possesso che ignora del tutto i desideri, i sentimenti, le paure, i sogni, i progetti di vita di colei che il persecutore dichiara di amare. Se andiamo a ricercare tra i concetti interiorizzati della donna, è esplicativo un testo basato sulla interpretazione di codici affettivi contrapposti maschio/femmina. “Carmen Adorata, Psicoanalisi della donna demoniaca (Milano, Longanesi, 1985),” è un lavoro di Franco Fornari che approfondisce in chiave psicoanalitica l’opera di Georges Bizet, Henry Meilhac, e Ludovic Halévy. In questo affascinante studio dei personaggi di Carmen e Josè troviamo “i codici fondamentali che travagliano l’anima femminile: essere donna ed essere madre”, con l’incessante sovrapporsi tra la donna divina e la donna demoniaca. Dualismo che porta la seducente sigaraia e divenire vittima sacrificale nell’esito finale del conflitto irrisolto. José chiede: Tu ne m’aimes plus? Carmen risponde: Non, je ne t’aime plus! » e quando lei restituisce l’anello a Don Josè lui la uccide. Sono significative le parole, estratte tra le altre: “Tu non mi ami più, che importa, dal momento che ti amo ancora, io… La catena che ci lega, ci legherà fino alla morte”. Mi chiedo a questo punto che fine ha fatto José, o che altro è successo dopo che Otello ha ucciso Desdemona. Don José rivela davanti a tutti il suo delitto, Otello si toglie sua volta la vita. Esiste ancora in queste vicende la categoria morale dell’espiazione. Espiare per meditare sul male fatto, per pentirsi e dare il giusto valore alla vita che si è voluto spezzare. Più è alto tale valore più è profondo il pentimento, meno si ha voglia di uscire dal proprio stato di penitente addolorato. Credo però che la contrizione sia un termine totalmente cancellato dalla forma mentis di chi oggi compie dei crimini. Del finto ravvedimento non se ne sente il bisogno. Si avverte come assente il legame tra pentimento ed espiazione, e si assiste invece, in chi commette reati, all’immediato ritorno alla vita allegra. Gran parte degli omicidi ritrovano subito le ragioni della loro squallida sopravvivenza, con la voglia di riprendere prontamente la vita di prima e magari andare a ballare in discoteca. Per questo oggi più nessuno confessa, e se pure inchiodati da prove e testimonianze negano e negano per vivere bene da subito un nuovo capitolo di vita superficiale, senza radici nell’anima e probabilmente ancora violenta. Ricordiamo che in Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo che diceva di amarla. Non è amore quando si pensa “O mia, o di nessun altro”. Chi ama davvero, pur tormentato, desidera la felicità della persona con la quale ha condiviso un pezzo di esistenza e sa che un giorno potrà rivederla senza soffrire perché sarà cresciuto e cambiato. Secondo una recente ricerca della Casa Internazionale delle Donne di Roma dal 2006 in poi si registra un aumento costante dei femminicidi. Nel 2010, fino a novembre, sono 116 le donne uccise e molte di loro sono state colpite da mariti, amanti, o fidanzati. Alcuni di questi crimini rientrano nella fenomenologia dello stalking che, nonostante la buona nuova legge, è in aumento. Si può distinguere la tipologia del molestatore aggressivo, anche sconosciuto, o dell’amante abbandonato che non sa regolare se stesso in un nuovo percorso deprivato della donna oggettivata. Nel primo caso – secondo Vincenzo Mastronardi “Lo stalker molesta la vittima attraverso comunicazioni intrusive (telefonate, posta, minacce sms ecc…); attraverso il controllo diretto (controllo nei luoghi pubblici o privati come posto di lavoro o abitazione); attraverso il controllo indiretto (segue, spia, sorveglia, tiene sotto controllo il portone di casa, tiene sotto controllo il computer della vittima attraverso l’utilizzo di programmi e software specifici di gestione remota); attraverso minacce di violenza; violenza fisica; vandalizzazioni varie (es. bucare le gomme dell’auto); violazioni di domicilio; l’abnorme invio di fiori; messa in rete di immagini sessuali della vittima; invio alla vittima di e-mail pornografiche; furto di identità della vittima per invio di false comunicazioni a familiari, amici, colleghi o conoscenti di quest’ultima; (…) .” La casistica dello stalker tipico è estesa, ma anche l’uomo abbandonato di cui abbiamo fiducia può giungere a colpire a morte la propria donna, agendo grazie ad una serie di approcci volutamente edulcorati. Quando vi dirà di non essere arrabbiata, di ricordare i bei giorni d’amore vissuti insieme; quando vi supplicherà di non distruggere il vostro grande amore, e ripeterà ti amo, non credetegli. Senza rinfacciarglieli, perché anche il farlo sarebbe cadere nella stessa trappola, ricordate a voi stesse i momenti brutti, gli insulti, le frustrazioni, le percosse, le minacce. E’ questo che dovete ricordare per mettere una distanza incolmabile tra voi e lui. Evitando di rispedire indietro i regali, interagire, rimandargli le lettere, rispondere agli sms. Non fate nulla di tutto questo e rammentate che ogni donna in questi casi avverte dei sensi di colpa fortissimi. Nel bilancio del fallimento attribuisce a se stessa gli errori, l’inadeguatezza, l’essere causa di un dolore incommensurabile. Dovete sapere che è comune nelle donne che decidono di separarsi, una sorta di Sindrome di Stoccolma, ed è questa una delle causa dell’imprudenza fatale. Quando vi chiederà piangendo “Vediamoci un’ultima volta”, e magari aggiungerà: “Questo me lo devi, per tutto quello che c’è stato tra noi. Ti chiedo solo un “ultimo incontro chiarificatore”. Rammentate che vi sta chiedendo il permesso di uccidervi. Allora non andate all’appuntamento. Siate generose con voi stesse, e siate generose con lui. Impeditegli di diventare un assassino. Un giorno, a cuore e cervello snebbiato, vi sarà grato del vostro rifiuto. 25 novembre 2010. Wanda Montanelli

CI SONO COSE PIU’ GRANDI DENTRO DI NOI

. E’ la sottigliezza della lingua italiana. La frase “Non ricordo di aver autorizzato l’affidamento” non è propriamente la stessa cosa di “Ricordo di non aver autorizzato l’affidamento”. E’ la vicenda che riguarda il magistrato Anna Maria Fiorillo alla quale una sera in cui il pm è di turno per il Tribunale dei minori di Milano, tra una molteplicità di casi che sollecitano quotidianamente il suo intervento, capita nottetempo una ragazza di diciassette anni accusata di furto per la quale si deve disporre la custodia e la tutela. Secondo il codice penale non ci sono altre vie che consegnare la ragazza ad un centro di accoglienza autorizzato. Tuttavia a giudicare dalle telefonate ricevute dalla dottoressa Fiorillo c’è un’evidente ansia di liberare la ragazza. I motivi delle pressioni fatte alla dirigente della questura di Milano possono essere facilmente intuibili, entrano nel campo della ricattabilità del Premier, ma non di questo è utile ancora parlare, piuttosto di come le autorità si regolano in un caso di fermo per furto di una minorenne. E chi di noi vorrebbe il male di una giovane piuttosto sbandata? La questione non è relativa ad un giudizio rigido né a risvolti morali. La faccenda riguarda ancora una volta la giustizia e la famosa frase dell’art. 3 che stabilisce pari dignità sociale per tutti i cittadini i quali sono eguali davanti alla legge senza alcuna distinzione. Avessero scritto i nostri Costituenti “La legge ‘dovrebbe’ essere uguale per tutti, tranne alcune eccezioni che di volta in volta vanno stabilite da chi di dovere a seconda della convenienza, o ragion di Stato, o ragion di letto, o privilegi inalienabili originati da status sociale”. In questo senso una figlia di Mubarak, benché ladruncola, poteva avere il diritto ad un trattamento di favore se la Costituzione lo avesse previsto. Esistono però delle regole gerarchiche anche nel concedere i privilegi e nel caso della giovane marocchina il “chi di dovere” è riferito all’unico ruolo in grado di decidere quella sera. Cioè il pm di turno. E’ vero, il magistrato Anna Maria Fiorillo non c’è cascata. Ha detto la frase derisoria: “La nipote di Mubarak? E io sono Nefertiti!” Però non è detto, si poteva persuaderla! Una figlia degenere poteva essere capitata al presidente dell’Egitto come in ogni migliore famiglia. Si poteva insistere portare le prove, oppure non avere prove e anche in assenza di verifiche, (ricordiamo la frase con il verbo dovere al condizionale presente) se per assurdo la costituzione avesse previsto il contrario di ciò che ha previsto, l’unica persona in grado di affidare la ragazza a chicchessia era la dottoressa Anna Maria Fiorillo. Ora si cerca di giocare sulla frase detta in buona fede per confutare il fatto che la pm non ha autorizzato l’affidamento all’altra amica di Berlusconi. Ha detto e scritto “non ricordo di…” e invece intendeva dire “ricordo di non…” Che importa? Dalle interviste fatte alla dottoressa Fiorillo è chiara la buona fede e la convinzione di aver fatto la cosa giusta. Sia la sera del 27 maggio, sia ora per chiarire di non aver autorizzato la consegna della minore a persona non corrispondente ai canoni previsti per legge. Perché lo ha fatto? Molti si chiedono come mai non ha scelto pavidamente una via più comoda, e si fanno venire il sospetto di un intervento presso i media per mania di protagonismo. Altri ancora tentano di buttare qui e là frasi di dubbio sulla “stabilità” o sull’ “equilibrio” della pm. Credo invece che per chi ha scelto una lavoro al servizio della giustizia non ci sia scelta che fare ciò che ha fatto Anna Maria Fiorillo. Tacendo avrebbe potuto indurre a qualcuno a ritenere che esistono pesi e misure diverse nell’amministrare la giustizia. Avrebbe dato a intendere con il suo comportamento che davvero la Costituzione è scritta nel modo ripugnante come su riportato, con la previsione di privilegi inalienabili e di verbi scritti al condizionale presente. Così non è. Correttamente il magistrato di turno ha negato il privilegio. “Ci sono cose più grandi dentro di noi” ha detto la Fiorillo a Lucia Annunziata nell’intervista di domenica 14 novembre. Non poteva esprimere meglio il senso dell’imparzialità. Quel sentimento verso la costruzione del bene sociale che nasce dal diritto, dall’emozione, dalla pietas, e si conclude sempre con gesti e azioni mossi da onestà intellettuale. 15 novembre 2010 Wanda Montanelli

LA GIUSTIZIA GIUSTA CHE SERVE A DAVIDE

. A gran voce si chiede una giustizia tempestiva e il primo requisito di giustizia giusta è proprio la celerità dell’esito finale perché se la sentenza arriva quando i contendenti sono passati a miglior vita o sono troppo anziani e rincitrulliti per capire che il giudice gli ha dato ragione non ha più senso. La macchina farraginosa che porta avanti lentamente le istanze dei cittadini derubati di un diritto deve modernizzarsi e su questo si può essere tutti d’accordo. Serve perciò “uno scatto d’efficienza” e servono “scelte coraggiose” ha detto di recente il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Pier Camillo D’Avigo, Consigliere della Corte di Cassazione i cui interventi sui mali della giustizia sono di una concisione e un’arguzia pregevoli, dichiara che in tema di giustizia il reato più odioso è quello che offende i più deboli. Alla domanda: “Allora sei di sinistra?” risponde: “L’etica del cavaliere medioevale di soccorrere i deboli e gli orfani, era di sinistra?”. La confusione che si crea nell’etichettare soggetti pubblici che svolgono la loro funzione con bravura e correttezza in “azioni di destra” o “di sinistra” non porta giovamento a Davide. Davide è l’uomo onesto che si affida, quando non riesce a trovare affermati i propri diritti, ad una magistratura che non intende colorare di rosso, di bianco o di nero. Un’istituzione super partes proprio in virtù dell’art.3 della Costituzione. E allora siccome Davide non ha altri mezzi per trovare conforto e ristoro se non l’affidarsi ad un soggetto “terzo”, superiore a se stesso e al proprio antagonista riguardo alla questione che ostacola il suo pieno diritto di cittadinanza, risulta di fondamentale importanza mantenere la sua fiducia nella magistratura. L’eccessiva lunghezza delle cause fa perdere tasselli importanti nello spazio vitale di ognuno. Il che si può riferire a procedimenti civili, ma ancor più a reati penali che incidono in maniera devastante nell’esistenza umana. Quindi non c’è maggior danno in tema di giustizia che il perdersi in diatribe politiche, o in inseguimenti su norme che riguardano pochi. Specie se questi pochi hanno nulla a che fare con Davide, ma piuttosto sono dei “super Golia” con un multistrato di protezione dato dal proprio status, che spesso è economico, sociale, politico, istituzionale, e di “potere” manifesto o occulto in quantità enormi di intrecci pubblici. “Leggi ad personam” è la locuzione più inflazionata di questi tempi. Se vogliamo dirla semplicemente si tratta di leggi personalizzate a proprio uso e consumo. Come se tutto l’imponente apparato dei due Parlamenti, le 945 cariche istituzionali di Camera e Senato, le Commissioni, il Sistema civile li abbia architettati e Iddio li tenga in vita per una o poche persone. “Tutti travagghiarono e ficero a iggio” dice un vecchio motto siciliano per schernire la pretesa di mobilitare l’intesse generale a favore di un solo soggetto. Il che è evidentemente al fuori a ogni buon senso, talmente avulso dalla saggezza da apparire poco intelligente. Ma c’è invece un’intelligenza scellerata, o un bisogno estremo di autotutela che muove e concentra certe azioni. Certo il permetterle non si addebita solo a chi le compie, semmai anche a chi certi codici di sistema ha inventato. Poiché abusare del privilegio non è novità di moderna realizzazione, ma esisteva, come esistevano gli spazi “vuoti”, talvolta predisposti, in cui s’è annidata la sfrontata crescita del beneficio personale. Alla faccia di Davide che sta in fila ad attender il suo turno, e non vede l’ora di essere chiamato dal suo giudice per dire, magari con un piccolo inchino e il cappello in mano: “Chiedo giustizia”. Ma la patologia del caso italiano da che dipende? I giudici sono fannulloni? Risponde sul tema D’Avigo per dire “Abbiamo la più alta produttività d’Europa, probabilmente del mondo. La giustizia è lenta per molte ragioni, ma la più importante di tutti è che ci sono troppi processi”. E ancora: “L’Italia spende per la giustizia quello che spende la Gran Bretagna, dove fanno 300 mila processi penali l’anno. Noi ne facciamo tre milioni. Abbiamo ogni anno più cause civili nuove di Francia, Spagna, Gran Bretagna messe insieme”. Spesso reati piccoli portano le cause fino alla Cassazione, come il mancato pagamento di un biglietto del tram o la banale lite tra condomini per chi debba pagare le spese d’elettricità dell’ascensore. Uno dei motivi che induce al ricorrere in Appello in materia penale è la inesistenza del rischio di vedersi aumentata la pena. Si dilungano le cause all’infinito anche per la volontà dell’avvocato di non arrivare a conclusione. Ad alcuni soggetti conviene perdere tempo per una serie di motivi, tra cui la prescrizione, e il legale può trovare decine di escamotage per far rimandare l’udienza. Per esempio l’assenza del legale di parte in udienza è pretesto di rinvio, mentre sarebbe facile stabilire che chi non si presenta deve mandare un sostituto in grado di seguire la causa perché comunque il procedimento non può avere rinvii per motivi artificiosi. Insomma occorre raziocinio e volontà. Leggi adeguate, che non sono fatte dai magistrati, ma talvolta “malfatte” dai legislatori. Servono leggi di facile lettura e interpretazione. Servono mezzi, ma soprattutto l’impegno verso la semplificazione e l’uso del digitale; la notifica e la firma elettronica; la mediazione obbligatoria e veloce delle controversie minimali; nuovi modelli organizzativi del lavoro; misure alternative alla detenzione di chi con comportamenti asociali non può che giovarsi del suo impegno rieducativo nei confronti dei bisogni altrui. Le carceri scoppiano. I radicali che con Rita Bernardini seguono la questione con puntualità e visite ripetute negli istituti di pena fanno sapere che dal 1o gennaio 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 1.688 detenuti, di cui 586 per suicidio. Ma anche su questo grave problema sembra che si sia fatto poco o nulla. Alcune nuove carceri sono state edificate ma non sono mai state aperte. Quanto alle semplificazione delle procedure alcune regioni italiane in accordo con il Cnipa (Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione) e il Ministero della Giustizia, hanno attivato un protocollo d’intesa per l’erogazione di servizi on line a uffici giudiziari, come la cancelleria telematica, la rete dei giudici di pace, la gestione trasparente dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Per ridurre il carico burocratico, risparmiare tempo e denaro, semplificare le procedure e dare giustizia. Una giustizia che funziona per tutti alla stessa maniera, come l’art. 3 prevede: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali dinnanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“. Il Presidente Napolitano, convinto del contenuto di democrazia di tale articolo, esprimendo le sue perplessità sul “lodo Alfano” che lo coinvolge nell’edificare uno scudo per le alte cariche dello Stato, rinvia in alcune dichiarazioni al contrasto che si creerebbe tra il lodo e l’art.90 che già prevede da sessant’anni: “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Il che per lui può bastare, ma anche per tutti gli italiani che confidano nella democrazia. “…nell’esercizio delle sue funzioni”, è lì la differenza. Roma 24 ottobre 2010 Wanda Montanelli

SOLO CHIACCHIERE E DISTINTIVO

La gente si aspetta risultati veri per penare di meno. Cose concrete della vita di tutti i giorni che sembrano a portata di mano ma sfuggono via portate dal vento insieme alle chiacchiere che la nostra classe politica ci amministra. Tanto bravi tutti a parlare e litigare quanto incapaci di portare a casa quello che la popolazione disagiata desidera. Cosa? Lavoro, stipendio, casa, scuola, mezzo di trasporto, spesa alimentare, abito, salute, ecc. Se l’utopia un tempo era una carriera di prima ballerina alla Scala, oggi è utopico un posto di lavoro, una casa, un reddito per vivere. Non si chiede assistenza, ma un vero diritto ad una seria attività come prevede la nostra carta costituzionale. Si chiama lavoro. L’impegno cioè a svolgere un’attività fisica o intellettuale in cambio di uno stipendio dignitoso. Questo e non altro. Sto parlando dei nostri concittadini della fascia “non privilegiata” che l’assistenza sono consapevoli di doverla lasciare a chi ne ha diritto per elezione in quanto appartenente a una rango superiore. L’assistenza in questi ultimi tempi è concessa a chi le “cose tangibili” le ottiene per il proprio status di capitalista a prescindere dai frutti del capitale. E’ una sorta di socialismo per i ricchi e capitalismo per i poveri, è un impianto complessivo delle scelte che premia sempre e comunque chi il mantello per l’inverno ce l’ha già. E’ una scellerata politica economica che favorisce la concentrazione del capitale verso pochi soggetti sociali e il dissanguamento incessante verso tutti gli altri. L’accusa è al sistema di capitalismo clientelare che da troppo tempo ormai socializza le perdite e privatizza i profitti. Di esempi ne abbiamo negli Stati Uniti, come in Europa, con salvataggi compiuti nel corso degli anni come il commissariamento dei colossi del credito ipotecario Fannie Mae e Freddie Mac, o della Bear Ste-arns. Da noi è l’Alitalia il caso tra i più eclatanti di socializzazione delle perdite. Ma numerosi sono gli esempi di azzardo morale, moral hazard cioè il sistema mentis che permette ad un soggetto di correre rischi avventati perché si considera esonerato dalle conseguenze del rischio stesso. E’ un ombrello grande quanto un pianeta rispetto alla cifra necessaria a non far morire di fame la famiglia di un cassintegrato. “Questi soggetti fanno i soldi sui disastri che loro stessi hanno creato” afferma Joseph Stiglitz, premio Nobel e docente di Economia alla Columbia University. E la domanda che i comuni mortali hanno in mente è: se una banca o una società prossima al fallimento diventa redditizia grazie ad una gestione pubblica perché restituirla agli incapaci che l’hanno fatta fallire? Il rigore logico non dovrebbe portare a socializzare i profitti dal momento che quei profitti derivano dalle tasche dei cittadini? Non di ipotesi ideologica si tratta, ma di considerazione pragmatica. Chi il capitale sa farlo fruttare liberamente senza chiedere nulla al pubblico merita di intascare i profitti, altrimenti i profitti devono essere restituiti al pubblico. Viviamo in una società privata del futuro, in cui banche e holding finanziarie accumulano guadagni, mentre i comuni mortali vivono giornate buie senza schiarite. Dal Rapporto sui diritto globali 2010 emerge che nel 2009 le famiglie italiane si sono indebitate di media per 21.270 euro per ogni cittadino. Per i lavoratori dipendenti il debito annuo è di 15.900 euro, di cui il 79,4% per la casa e il resto per consumi diversi. Pensare che un tempo gli italiani erano un popolo di risparmiatori e di lavoratori, ma adesso non sono più né l’uno né l’altro e non per loro colpa. Il popolo di risparmiatori si è disperso nel rincorrere le spese superiori alle attese di guadagno. E la “fortuna” di avere un lavoro, le rare volte che capita, non salva dall’impoverimento. Il fenomeno del “working poor”, citato nello stesso rapporto, fornisce i dati sulla soglia di povertà relativa di 13,6 milioni di lavoratori con meno di 1.300 euro netti al mese. Il reddito familiare perso tra il 2002 e il 2008 è di 1.599 euro tra gli operai e di1.681 euro tra gli impiegati. Ma non basta perché gli aumenti dei prezzi, della disoccupazione e il livellamento verso il basso dei salari hanno aggravato l’emergenza casa. Entro il 2011, si prevede che 150.000 famiglie italiane saranno sfrattate. A fronte di questi impoverimenti si apre la distanza tra ceti sociali fino al punto che c’è chi guadagna smodatamente e senza alcun imbarazzo nei confronti dei disperati alle prese con rate di mutuo in mora, il distacco della corrente o lo stop all’erogazione del metano, sicché gli sfiancati dalle difficoltà del vivere perdono anche l’ultima chance di attaccarsi alla canna del gas. I sacrifici (non dico a lacrime e sangue ma semplici economie dettate da un soprassalto di decenza) sono istituti che certa gente sa ben allontanare da sé, un po’ per egoismo, un po’ per questione di classe (assenza di). Per fare qualche esempio possiamo citare Carlo Puri Negri, ex vicepresidente esecutivo di Pirelli Re, che ha incassato 14 milioni di euro nonostante la società abbia chiuso l’anno con un passivo di 104 milioni. Claudio De Conto, ex direttore generale di Pirelli, con l’introito di 7,3 milioni. Tra chi non si fa mancare niente troviamo, con 5,6 milioni, Marco Tronchetti Provera presidente di Pirelli. Sergio Marchionne e Luca Cordero di Montezemolo entrambi remunerati dalla Fiat, rispettivamente con 4 milioni e 782 mila euro l’uno, cinque milioni e 177 mila euro l’altro. Gli elenchi riempirebbero pagine e pagine ma chiudiamola qui specificando che con il compenso di 100 top manager delle banche si potrebbero pagare i salari di 10.000 lavoratori. IL PRAGMATISMO DI CUI GLI ITALIANI HANNO BISOGNO Come se ne esce? Evitando gli scontri tra fazioni sembra avvicinarsi il tempo di condividere con le donne la gestione della cosa pubblica. Le donne che impegnate nelle istituzioni non si dilungano in polemiche di principio, ma affrontano in modo pragmatico le questioni per risolverle in tempi rapidi e in una prospettiva attenta ai bisogni delle persone. Da indagini su comportamento delle deputate in Europa risulta che l’approccio femminile alla politica è caratterizzato dall’attenzione all’individuo e ai suoi tempi e modi d’essere. Appare chiaro che le donne sono più democratiche, aperte ai cambiamenti e molto sensibili agli interessi degli elettori. Non conviene, a chi è abbarbicato ai posti di potere, fare l’esperimento clou. Provare cioè come le donne riescono a risolvere gli annosi problemi che loro, per interessi di bottega o inettitudine, lasciano marcire. Se i cittadini, una volte messe alla prova le donne nelle istituzioni apicali, dovessero trovarsi tanto bene da confermarle al potere decisionale, costoro avrebbero chiuso e andrebbero a casa intorbidati dalle chiacchiere di cui hanno ammorbato il clima. Tra le possibilità concrete di perseguire il bene comune un’idea da ben valutare potrebbe essere il modello di Big Society,  del 44enne Phillip Blond. La sua idea è criticata come un possibile progetto di taglio al Welfare State, ma se ben regolato il piano potrebbe creare nuove opportunità di lavoro appaltando ai cittadini i servizi. E’ chiaro che non di privatizzazione si tratterebbe, ma di concessione vincolata al rispetto dei diritti di chi vi è coinvolto. In Italia il sistema delle cooperative già funziona da molti anni. Una supervisione delle istituzioni e soprattutto accordi di conferimento del servizio che prevedano l’annullamento del contratto in caso di manifesta incapacità o mancato rispetto delle regole sui contratti di lavoro o altre irregolarità, sarebbe il necessario contrappeso prima di imbarcarsi in un sistema che potrebbe essere vincente o deleterio a seconda di come lo si imposta dall’inizio. Di buone idee ve ne sono. Basterebbe avere l’interesse a realizzarle, chiaramente interesse “pubblico” per migliorare la qualità della vita degli italiani. Un’idea rivoluzionaria: “Tassare chi specula” è la campagna condotta dall’Unità. Si tratta della Ftt, Financial Transaction Tax (la tassa sulle transazioni finanziarie), dell’importo minimale che va dallo 0,01 allo 0,05% che approvata sarebbe una risorsa per superare gli effetti della crisi che ancora incombe. Il premier Berlusconi la definisce ridicola, Nicolas Sarkozy l’ha promossa in sede Onu, le lobby finanziarie la osteggiano. Ma non sembra così ridicola se l’Austrian Institute for Economic Research fa sapere che la tassa applicata a livello globale potrebbe garantire un gettito fra i 500 e i 1000 miliardi di dollari l’anno, e applicata nei soli Paesi dell’Unione europea la Ftt frutterebbe circa 200 miliardi di euro. Il dibattito aperto negli Stati Uniti dagli economisti Paul Krugman e Joseph Stiglitz, è sostenuto dal presidente Barack Obama che però deve andarci cauto considerando i contraccolpi nelle elezioni di mid term. La minuscola tassa mette paura a chi gioca con la speculazione e giocando si diverte solo lui mentre tutto il resto va in malora. A Bruxelles i socialdemocratici tedeschi e austriaci pensano di raccogliere un milione di firme in base a quanto previsto dall’Art. 11 del Trattato di Lisbona per invitare la Commissione europea a presentare una proposta. L’obiettivo è chiaro: chiedere al prossimo G20, previsto per novembre a Seul, l’introduzione di Ftt. In Italia già dalla scorsa primavera è iniziata la “Campagna 005”. Sul relativo sito si può aderire e lasciare un commento. Roma 10 – 10 – 10 Wanda Montanelli